In generale, parlare di sport e di diritto sembra quasi un’antitesi, una forzatura di un legame, apparentemente, infondato.
In realtà, però, l’ambito sportivo risulta essere un terreno fertile per svariati dibattiti dottrinari.
Pensando, ad esempio, alla violenza sportiva, il pensiero si ricollega immediatamente agli episodi di aggressione “esterna” sugli spalti o nelle prossimità dei vari palazzetti o stadi tra tifosi di squadre avversarie.
Poca attenzione viene, al contrario, prestata ai casi di violenza “interna” tra gli sportivi professionisti medesimi (chi non ricorderà la celebre “testata” inflitta dal calciatore Materazzi al collega Zidane in occasione dei Mondiali 2006 oppure ai numerosi falli e varie scorrettezze a cui siamo soliti assistere tra i giocatori sul campo verde?).
Sul punto, ampia giurisprudenza di legittimità si è registrata, soprattutto negli ultimi anni, in materia, con cui è stata accolta la tesi, seppur avversa e non scevra di incertezze e perplessità, dell’accettazione del c.d. “rischio consentito”.
Sommario
- L’adozione giurisprudenziale della scriminante non codificata del c.d. “rischio consentito”
- L’apparente stretto confine tra illecito sportivo ed illecito penale
- Responsabilità sportiva o penale? Il ruolo essenziale delle regole ordinarie in materia di colpevolezza
- Conclusioni
1. L’adozione giurisprudenziale della scriminante non codificata del c.d. “rischio consentito”
Come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 9559/2016), la scriminante del c.d. “rischio consentito”, con rispettiva emersione di un profilo di responsabilità penale e civile legato al risarcimento del danno, non risulta operante in tutti quei casi in cui:
vi sia una mancanza di collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva;
quando la violenza sia non proporzionata alle caratteristiche del gioco e, da ultimo;
allorquando la finalità lesiva sia prevalente nell’azione compiuta.
In prima battuta, emerge palesemente come non si possa parlare di misurazione del rischio in senso assoluto, rendendosi necessaria una valutazione concreta, caso per caso, che tenga conto, soprattutto, delle diverse caratteristiche che delineano le diverse pratiche sportive.
Nell’ambito delle cause di giustificazione in grado di legittimare possibili episodi di violenza sportiva tra atleti professionisti, è stata, inoltre, esclusa la possibile applicazione della scriminante del consenso dell’avente diritto, non potendosi acconsentire l’accettazione di lesioni, anche irreversibili, alla propria integrità fisica, che vadano oltre il rischio precedentemente accolto e legato alla specifica attività sportiva praticata; ad ogni modo, però, bisogna effettuare una dovuta distinzione tra quelle pratiche sportive più “violente” e maggiormente “cariche” di rischi fisici più importanti (come, ad esempio, il rugby o, in primis, il pugilato) ove risulta essenziale, ai fini di un corretto bilanciamento tra rischio consentito e possibili lesioni, l’adozione di tutte quelle regole e misure precauzionali a tutela della vita stessa dell’atleta.
Sarà, quindi, essenziale, per un equilibrato decisum, partire dall’identificazione dei limiti del rischio consentito, da intendere nei termini di quell’area di non punibilità contraddistinta dalle regole della disciplina e dalle singole norme di gioco (Cass., n. 3284/2021).
Basti pensare, a titolo esemplificativo, al colpo del pugile regolarmente inferto all’avversario che gli produca un livido. In tale fattispecie, chi subisce la lesione non può lamentarsene, in quanto, praticando la boxe, ha accettato di ricevere dei colpi che possano comprometterne l’incolumità fisica. Laddove, invece, la lesione all’incolumità personale derivi dalla violazione della regola sportiva, sarà necessario interrogarsi sul limite tra illecito sportivo e illecito penale.
2. L’apparente stretto confine tra illecito sportivo e illecito penale
Come cristallizzato di recente dagli Ermellini (Cass., n. 3284/2022), i campi interessati, rispettivamente, dall’illecito sportivo e da quello penale non risultano perfettamente coincidenti.
Invero, nell’eventualità di un’azione, non contraddistinta da volontarietà e finalizzata al perseguimento di un risultato prettamente sportivo, non si possa parlare di illecito penale.
Di converso, allorquando la violazione della regola sportiva sia connotata da una precisa intenzionalità di arrecare pregiudizio all’incolumità fisica dell’avversario, per ragioni estranee alla competizione sportiva, non si potrà più inquadrare tale condotta nell’ambito dell’illecito sportivo, bensì in quello penale (doloso o colposo).
Il dolo ricorre ogniqualvolta l’atleta attui un’azione con la sola finalità di cagionare lesioni fisiche all’avversario, per motivazioni estranee alla gara sportiva (ragioni personali, per pregressi anche lavorativi o risentimenti vari) mentre la colpa si avrà in occasione della violazione delle regole del gioco, in un’ordinaria situazione di competizione sportiva, con una finalità non già personale volta ad arrecare pregiudizio ad un altro atleta, ma di conseguimento, seppur lontano dalle corrette modalità sportive, di un certo obiettivo agonistico (ex plurimis, Cass., n. 19473/2005 e Cass., n. 17923/2009).
Ad ogni modo, però, anche la configurazione che basa il confine tra illecito sportivo ed illecito penale sull’applicazione della causa di giustificazione del rischio consentito, non risulta del tutto convincente, dal momento che l’attività sportiva, costituente una pratica lecita e regolamentata da un “pacchetto” di norme connesse a ciascun rispettivo settore, sembra assurgere al ruolo di scriminante.
Risulta evidente come la partecipazione ad una determinata attività sportiva non implichi l’accettazione, altresì, della possibilità di una lesione all’integrità fisica, seppur nell’ambito della violazione di una norma interna della gara.
3. Responsabilità sportiva o penale? Il ruolo essenziale delle regole ordinarie in materia di colpevolezza
Come si desume da quanto sopraesposto, la responsabilità sportiva e la responsabilità penale occupano spazi ben diversi, dal momento che la prima risulta disciplinata dai vari regolamenti sportivi di competenza, mentre la seconda può configurarsi solo nel caso di un evento lesivo dell’incolumità fisica di un atleta, a seguito di una condotta dolosa o colposa del soggetto agente (Cass., n. 3284/2022).
Il fulcro essenziale della questione è legato all’esigenza di comprendere quale tipo di connessione possa individuarsi tra la regola sportiva e quella cautelare finalizzata alla non produzione di eventi dannosi, giacché l’azione strettamente sportiva, anche in linea con le regole agonistiche, può essere tale da arrecare una lesione all’incolumità fisica altrui ovvero una violazione della norma sportiva può, al contrario, non rientrare nella normale alea di prevedibilità dell’evento lesivo.
Bisognerà, quindi, concentrarsi sulle regole ordinarie della colpevolezza, andando a verificare la regola cautelare posta alla base della competizione sportiva, affinché questa sia condotta con prudenza, diligenza e perizia, sempre nel rispetto delle regole del gioco, al fine di evitare il pericolo di lesioni all’incolumità fisica dei partecipanti agonistici.
Da ciò si comprende non come vi possa essere una piena coincidenza tra il campo coperto dall’illecito sportivo e quello dell’illecito penale, posto che, nella prima ipotesi, si avranno delle regole tese alla disciplina di una corretta azione agonistica sportiva, mentre nel secondo delle norme volte ad evitare un evento dannoso.
Di conseguenza, anche se con l’accettazione di un determinato regolamento, si avrà una liceità sportiva, ci sarà sempre un’area non coperta dalla liceità penale che, per il suo rispetto, richiederà un’azione coperta da prudenza, diligenza e perizia, scevra da una volontà dannosa, con un’autodisciplina ed astensione da determinate attività che, seppur ammesse dal regolamento sportivo, secondo un giudizio prognostico di valutazione ex ante e di prevedibilità, possano nuocere l’incolumità altrui.
Da qui la distinzione tra illecito sportivo, di competenza dell’arbitro, e quello penale, su cui sarà chiamato a pronunciarsi il giudice, in base ai criteri della colpa, di cui all’art. 43 c.p., dovendo individuare sia, in primo luogo, la regola cautelare preesistente sia, in un secondo momento, i limiti della sua applicazione in un’ottica di prevedibilità dell’evento dannoso.
Da ultimo, quindi, il giudice, ai fini di un corretto inquadramento della condotta nell’ambito o dell’illecito sportivo o dell’illecito penale (e civile), dovrà valutare l’abnormità della condotta dell’agente e la volontarietà dell’infrazione attuata (Cass., n. 8609/2022).
4. Conclusioni
La scelta giurisprudenziale di adottare la tacita causa di giustificazione del c.d. “rischio consentito”, ai fini della risoluzione delle vicende giudiziarie emerse in campo sportivo, appare, agli occhi di chi scrive, connotata da un’eccessiva ed inaccettabile discrezionalità nell’ambito di una corretta individuazione dei limiti tra attività consentita ed azione illecita, facendo sì che il giudicante, sulla scorta di proprio principi soggettivi e, pertanto, opinabili, possa definire i confini di una c.d. “condotta diligente”.
Peraltro, sotto altro punto di vista, verrebbe da interrogarsi circa il possesso delle dovute competenze sportive, con una profonda conoscenza della struttura, delle regole e dei rischi di un mondo, forse, ad oggi, ancora sottovalutato, da parte di soggetti, quali magistrati e giudici, formati solo in ambito giuridico e non propriamente dotati di una professionale cultura sportiva, in virtù della quale individuare la potenziale lesività di determinate pratiche di gioco.
Il rischio di un simile approccio sarebbe quello di non affrontare il punto fondamentale della questione ovvero stabilire l’effettiva sussistenza di un comportamento doloso o colposo giuridicamente rilevante su un piano penale ovvero su quello civile, giacché commesso in violenza di una determinata regola cautelare.
https://www.altalex.com/documents/news/2022/07/30/violenza-sportiva-interna-tacita-scriminante-rischio-consentito