L’intima contraddizione tra riconoscimento civile e penale segnala la necessità di un intervento legislativo di riforma dei reati del ”Codice Rosso”
1. Introduzione: le differenze tra mobbing coniugale e mobbing familiare
Quando si parla di mobbing, si tende ad associare tale condotta illecita, per lo più, all’ambiente lavorativo ovvero ad un comportamento contraddistinto da vessazioni e denigrazioni derivanti, principalmente, dal datore di lavoro o da un soggetto posto ad un superiore livello gerarchico nei confronti di un dipendente (il riconoscimento ufficiale si ebbe nel 1984, grazie agli psicologi del lavoro Leymann e Gustavsson).
In realtà, con il trascorrere degli anni, anche la fattispecie del mobbing ha subito un’evoluzione, con un suo adattamento, altresì, al contesto familiare, derivandone, pertanto, un riconoscimento sia tra coniugi (c.d. “mobbing coniugale”) ovvero tra familiari (c.d. “mobbing familiare”).
La prima sentenza che ha avuto il merito di introdurre tale istituto, nell’ambito del contesto familiare, sradicandolo da quello tradizionale del diritto del lavoro, è da rinvenire nella decisione emessa dalla Corte di Appello di Torino il 21.02.2000, che ha ricondotto nell’ambito del c.d. “mobbing familiare” il comportamento del marito che era solito insultare e denigrare pubblicamente la moglie, ledendone l’autostima e la dignità personale (in tale circostanza, la Corte aveva accolto la richiesta della donna di addebitare la separazione al coniuge).
Esaminando brevemente le differenze tra le due sottocategorie, la prima tipologia si configura, ad esempio, in strutture coniugali strettamente patriarcali, ove il partner di sesso maschile si erige a soggetto di livello superiore, anche solo per la capacità di contribuire maggiormente al ménage familiare, facendo sentire la donna inutile, denigrandola e vessandola, fino a costringerla ad un abbandono del tetto familiare ovvero ad un livello tale di sopportazione da sfociare in gravi danni psico-fisici (ad esempio, depressione, ansia ed attacchi di panico).
La seconda, invece, può verificarsi dopo una separazione o un divorzio, ove l’ex coniuge scredita la precedente partner, altresì, dinanzi la prole oppure la denigra, facendola sentire inadeguata rispetto al suo ruolo di madre e della nuova veste lavorativa (a titolo esemplificativo, per tutte quelle donne che solo successivamente ad una separazione o ad un divorzio sono costrette a trovare un’occupazione dopo decenni di compiti esclusivamente casalinghi, al fine di mantenere sé e la prole, anche alla luce della scarsa collaborazione economica della figura maschile).
Ad ogni modo, affinché si possa parlare di mobbing in ambito familiare o coniugale, è richiesta la contemporanea sussistenza di quattro requisiti: la reiterazione nel tempo dei comportamenti illeciti da parte del mobber, il danno psico-fisico arrecato alla vittima, il nesso di causalità tra la condotta del mobber ed il danno patito dal soggetto passivo nonché l’intenzionalità del mobber.
2. La nascita di una terza tipologia: il mobbing para-familiare
In tempi più recenti, è emersa un’ulteriore figura di mobbing, ovvero quella del mobbing para-familiare (Cass., n. 23358/2016 e Cass., n. 14754/2018) che trova la sua principale punibilità (del tutto incredibilmente) ai sensi dell’art. 572 c.p. (inserito nell’ambito dei reati contro la famiglia.
Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, “il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assum[e] natura para-familiare, sia cioè caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia del soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia” (Cass., n. 27905/2020 e, in senso conforme, Cass., n. 19268/2022).
3. Il riconoscimento del mobbing coniugale e familiare in ambito civile
In ambito civile, non sono mancate, negli ultimi anni, le pronunce di merito e di legittimità che hanno riconosciuto, in via autonoma, il mobbing coniugale o quello familiare.
Rispetto al primo profilo, merita di essere ricordata la decisione assunta dal Tribunale di Napoli, il 27 settembre 2007, che ha statuito come la prolungata denigrazione da parte di un coniuge ai danni dell’altro, fosse non solo da ricondurre nell’ambito del mobbing, ma rappresentasse, altresì, motivo di addebito in sede di separazione.
Qualche anno più tardi, con la sentenza n. 13983/2014, la Corte di Cassazione ha, inoltre, affermato come il mobbing familiare rappresentasse una valida causa di addebito della separazione, nel caso in cui il ricorrente fosse in grado di dimostrare il compimento, da parte del coniuge, di atti compiuti, con intenzionalità e volontà, contrari ai doveri matrimoniali, il nesso di causalità tra tali atti e l’intollerabilità della convivenza coniugale ovvero un grave pregiudizio per la prole.
Con l’ordinanza n. 21296/2017, la Suprema Corte è stata chiamata ad intervenire, ex novo, in materia, confermando, ancora una volta, l’addebito della separazione a carico del coniuge che realizza atti vessatori ai danni dell’altro, incorrendo nella fattispecie illecita del mobbing familiare.
4. Il mancato riconoscimento del mobbing coniugale e familiare nel contesto penale
Se in ambito civile, come sopra esposto, si può parlare di un riconoscimento, quale fattispecie autonoma, dell’istituto in esame, lo stesso non può dirsi nel contesto penale.
La vittima di mobbing familiare o coniugale, non potrà, invero, sporgere formale denuncia-querela per una fattispecie specifica ma ad oggi, potrà, pertanto, rivolgersi alle competenti Autorità, solo al fine di denunciare fattispecie, seppur somiglianti per certi tratti all’ipotesi in questa sede approfondita, diverse, come, a titolo puramente esemplificativo: stalking (art. 612-bis c.p.), maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), molestia o disturbo alla persona (art. 660 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) o minaccia (art. 612 c.p.).
Ciò ha dato vita ad un dibattito tra coloro che affermano la necessità di una specifica disciplina del mobbing familiare e coniugale, da intendersi quale autonoma fattispecie delittuosa da inserire nell’ambito dei reati contro la persona e coloro che si ritengono contrari, sulla scorta di una paventata “sufficienza” normativa volta a tutelare, con le già esistenti figure di reato, la vittima del mobber.
5. Conclusioni: la necessità di un intervento del legislatore con una dovuta riforma dei reati del c.d. “Codice Rosso”
Ciò che emerge dalle già indicate considerazioni in materia è, a parere di chi scrive, l’assoluta mancanza di empatia da parte del legislatore che si è susseguito nel corso dei decenni verso una fattispecie illecita che merita, in virtù del suo vastissimo potenziale di danno psico-fisico, un autonomo riconoscimento.
Se nell’ambito civile, è stato possibile dare risalto a tale ipotesi, con il riconoscimento dell’addebito della separazione a carico del coniuge/mobber, non è dato comprendere come anche in sede penale non si sia avuto analogo epilogo.
Ricondurre, per ragioni di mera praticità e comodità logistico-burocratica, una simile fattispecie illecita alle già ben note ipotesi di reato, ha sancito, ancora una volta, la “morte” del diritto, dell’istituto della sua certezza, lasciando, come sempre, il compito all’interprete-giudicante, di colmare un importante vuoto, cercando di “tappare” i buchi normativi, ricorrendo, tramite un adattamento a quanto già esistente, con tutte le potenzialità negative del caso di decisioni errate e poco “centrate” e la lesione degli interessi soggettivi, soprattutto, delle vittime.
Risulta, quindi, palese come tale fattispecie, che vede la figura femminile quale la vittima prediletta, debba ricevere un proprio riconoscimento, non solo giuridico, ma in primis normativo, con la formulazione di un’apposita ed autonoma figura di reato da includere nell’ambito del c.d. “Codice Rosso”, proprio alla luce della riconducibilità per analogia alla maggioranza delle figure di reato presenti in tale elenco.