Le diverse fattispecie di estorsione sui luoghi di lavoro
L’insussistenza del fatto prima dell’assunzione, la minaccia di licenziamento o di mancata retribuzione, la sottoscrizione di buste paga false tramite minaccia larvata.
1. Introduzione
Se, fino a qualche anno fa, l’associazione del termine “estorsione” al mondo del lavoro faceva storcere il naso a qualcuno, ad oggi, purtroppo, sembra quasi diventata una prassi a cui abbiamo sfortunatamente fatto l’abitudine.
Tralasciando quelle poche situazioni eccezionali di contesti professionali, dove vige ancora rispetto per la parte più debole, con sorpresa e sgomento tra i più, la maggior parte delle esperienze lavorative, soprattutto quelle tipiche del lavoro subordinato, presentano, o prima o dopo, delle sfaccettature ricadenti nell’ambito della rilevanza penale sopracitata, anche nella sua forma tentata.
Lo scopo del presente focus sarà, pertanto, quello di analizzare le diverse forme di estorsione che possono presentarsi sul posto di lavoro, facendo riferimento alle più importanti e recenti pronunce di legittimità, per tentare di offrire utili strumenti di consapevolezza al lavoratore “medio” ignaro di come determinate dinamiche possano configurare vere e proprie fattispecie di reato, penalmente perseguibili.
2. Il reato di estorsione
Prima di analizzare le diverse possibili figure di estorsione lavorativa, risulta doveroso svolgere alcuni preliminari rilievi rispetto alla fattispecie di reato prevista dal Codice penale.
L’art. 629 c.p. punisce, al primo comma, chiunque, tramite violenza (tale da coartare la volontà della persona offesa ma non in misura completa, posto che altrimenti si ricadrebbe nell’ambito della rapina di cui all’art. 628 c.p.) o minaccia (intesa quale prospettazione di un male ingiusto e notevole da parte dell’agente), costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
La disposizione prevede, poi, al secondo comma un aggravamento della pena laddove ricorrenti le circostanze aggravanti di cui all’art. 628, terzo comma, c.p. ovvero: 1) se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite; 2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato d’incapacità di volere o di agire; 3) se la violenza o minaccia è attuata da persona facente parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis c.p.; 3-bis) se il fatto è realizzato nei luoghi di cui all’art. 624-bis c.p. o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa; 3-ter) se il fatto è compiuto all’interno di mezzi di pubblico trasporto; 3-quater) se il fatto è commesso avverso una persona che si trovi nell’atto di usufruire o che abbia appena usufruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici per il prelievo di denaro e 3-quinquies) se il fatto è commesso verso persona ultrasessantacinquenne.
Come si desume dalla lettura dell’art. 629 c.p., sono essenziali, per la sua sussistenza, in via alternativa o cumulativa (cfr.
Cass., n. 17427/2019), gli elementi della violenza o della minaccia, le quali devono essere finalizzate a coartare (anche se non completamente) la volontà della persona offesa (cfr.
Cass., n. 15564/2021) affinché realizzi un atto di disposizione patrimoniale, a prescindere dalle modalità con cui tale condotta possa realizzarsi, anche tramite un comportamento omissivo.
Il costringimento può riguardare la realizzazione di un atto di disposizione patrimoniale tanto di senso positivo quanto di senso negativo, purché produttivo di effetti sul piano giuridico.
Il profitto derivante al soggetto agente può avere rilevanza sia economica sia di diversa natura, diversamente dal danno che invece ha solo carattere patrimoniale (sul punto, cfr.
Cass., n. 32083/2023).
Circa, invece, l’elemento soggettivo del reato, il legislatore ha richiesto il dolo generico e non già il dolo specifico, posto che l’ottenimento del profitto da parte dell’agente costituisce l’evento del reato (cfr. Cass., n. 2480/1984).
3. L’insussistenza del reato prima dell’assunzione
Effettuata la già indicata breve premessa rispetto ai caratteri essenziali del reato di estorsione, è possibile passare all’esame di tale delitto calato nel mondo lavorativo.
Con la recentissima sentenza n. 7128 del 16.02.2024, la Suprema Corte, muovendo dal ricorso proposto dall’imputato titolare di un’impresa ritenuto colpevole del reato di estorsione ai danni di alcuni propri dipendenti, ha elargito, rispetto al quarto motivo del ricorso oggetto di accoglimento, importanti principi di diritto sul tema dell’estorsione nel campo dei luoghi di lavoro.
In particolar modo, premettendo come il delitto di estorsione possa assumere carattere attivo o omissivo dalla fase dell’assunzione fino all’esecuzione del contratto, gli Ermellini hanno chiarito come la parte economicamente più forte possa trovarsi a ricorrere a determinate clausole negoziali al fine di ridurre la capacità del lavoratore a compiere una scelta libera, facendo leva sull’elemento della minaccia, rilevante per la configurazione della fattispecie in esame.
Richiamando, poi, consolidata giurisprudenza di legittimità (da ultimo,
Cass., n. 3724 del 02.02.2022), la Corte ha affermato che “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con minacce larvate di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate”, statuendo come il reato non possa dirsi configurabile antecedentemente all’instaurazione del rapporto di lavoro, risultando assente, in tale momento, il requisito fondamentale della minaccia, “non sussistendo prima della conclusione dell’accordo il diritto dell’aspirante lavoratore ad essere assunto a determinate condizioni”, includendo sia la costituzione formale sia quella “di fatto” dei diversi rapporti di lavoro (anche irregolari).
4. La minaccia di licenziamento o di mancata retribuzione
Un’altra emblematica pronuncia, emessa dalla Suprema Corte, è stata la n. 29047 del 05.07.2023.
Tralasciando per brevità espositiva i fatti di merito alla base del ricorso, ciò che più interessa ai fini del presente esame è il principio cardine elaborato dalla Cassazione per individuare il confine tra reato di estorsione e condotta non penalmente perseguibile.
In particolare, gli Ermellini, adeguandosi a precedenti orientamenti giurisprudenziali (
Cass., n. 6620 del 23.02.2022 e
Cass., n. 21789 del 15.05.2019) hanno sostenuto come non sia sussistente l’ipotesi del delitto di estorsione “quando il datore di lavoro, al momento dell’assunzione, prospetti agli ispiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia, anche parziale, della retribuzione e la perdita dell’opportunità di lavoro, difettando il requisito dell’altrui danno – in ragione della preesistente condizione di disoccupazione per i lavoratori (che dovrebbero assumere la veste di persone offese), rispetto alla quale il conseguimento di un’opportunità di impiego rappresenta un dato patrimonialmente positivo”.
Contrariamente, la Suprema Corte ha individuato la fattispecie di cui all’art. 629 c.p., allorquando sussistenti condotte mediante cui il datore di lavoro, al fine di costringere i dipendenti ad accettare mutamenti del rapporto di lavoro, in via peggiorativa per i lavoratori, prospetti alla persona offesa, in caso di mancata adesione, l’effetto dell’interruzione del rapporto, tramite licenziamento o dimissioni forzate (cfr. Cass., n. 3724/2022).
In particolare, l’estorsione è stata riconosciuta allorquando la minaccia sia inflitta dal datore per cessare il rapporto di lavoro iniziato in nero, in caso di mancata accettazione della formalizzazione del rapporto a condizioni non adeguate alla realtà.
Il vantaggio perseguito, costituente l’ingiusto profitto, può essere costituito da modifiche delle condizioni contrattuali che possano ridurre o eliminare i diritti dei lavoratori, comportando per il datore risparmi di spesa o uscite economiche d’importo inferiore oppure può essere rappresentato dall’imposizione di formule contrattuali che, “simulando la regolamentazione del rapporto in termini difformi da quelli reali e riconoscendo al dipendente livelli retributivi e indennità in realtà non corrisposte, comporta per il datore di lavoro il vantaggio di impiegare dipendenti con condizioni contrattuali apparentemente rispettose delle norme inderogabili a tutela dei diritti dei lavoratori, mentre costoro sono costretti a subire conseguenze patrimoniali negative”.
5. La sottoscrizione di buste paga false tramite minaccia larvata
Un’altra sentenza molto interessante ma più risalente rispetto alle precedenti richiamate è la n. 1284 del 19.01.2011, con cui la Suprema Corte, pronunciandosi sul caso di un datore di lavoro che aveva minacciato il licenziamento alle sue dipendenti, in caso di mancata apposizione della loro firma su buste paga superiori a quelle che effettivamente percepivano, ha ritenuto sussistente il reato di estorsione, nonostante la mancata effettiva intimidazione da parte del soggetto passivo.
Nella fattispecie, nonostante i lavoratori non si fossero lasciati intimidire dalle minacce del datore, rivolgendosi ai sindacati e al giudice del lavoro, è stato riconosciuto il reato di estorsione alla luce della condotta del datore volta a coartare la volontà altrui infliggendo un sentimento di paura.
Sul punto, con una successiva pronuncia, la n. 25979 del 07.06.2018, la Cassazione ha aggiunto come sia riconosciuto il reato di estorsione, altresì nel caso di “minaccia larvata di licenziamento”, non essendo, pertanto, necessaria una minaccia esplicita ed espressa.
6. Conclusioni
Non risulta essere un mistero come il mondo del lavoro si sia particolarmente evoluto negli ultimi anni, con una prevalenza dell’offerta sulla domanda e con una concorrenza molto elevata, che non ha fatto altro che avviare un’inarrestabile corsa al ribasso, da parte dei datori che, per svariate professioni, forti della possibilità di nuove risorse, costringono i lavoratori, tramite minacce, più o meno esplicite, di licenziamento, ad accettare, a malincuore, condizioni lavorative più sfavorevoli e trattamenti retributivi inferiori alle effettive prestazioni rese.
A dispetto di quanto si possa pensare, tale realtà è presente negli ambienti di lavoro tanto manuale quanto intellettuale, con un crescente indebolimento della posizione del lavoratore (in nero, subordinato o non), costretto ad accettare condizioni sfavorevoli, rispetto al proprio percorso di studi o di lavoro, pur di percepire un regolare stipendio (nei casi più fortunati) e combattere lo stato di precarietà che sempre più attanaglia la nostra società.
Nella maggior parte dei casi, i lavoratori tendono, peraltro, ad accogliere condizioni lavorative e retributive sfavorevoli, evitando di denunciare, anche per le lunghe tempistiche, specialmente nelle città più grandi (Roma e Milano, ad esempio), che richiedono le trattazioni delle cause di lavoro, oltre che per gli elevati costi legali che richiederebbero almeno all’inizio per un lavoratore di media fascia (magari padre di famiglia) oppure per un giovane laureato che vive ancora alle spalle della famiglia d’origine.
Indubbio concludere come sia, ancora una volta, compito del Governo introdurre maggiori tutele che siano davvero concrete e non solo sulla carta, con una relativa rivoluzione del diritto del lavoro, che possano contribuire all’instaurazione di un miglior mercato del lavoro, in grado di concorrere a quello instaurato in altri Paesi europei dove moltissimi italiani fuggono per inseguire una maggiore solidità economica e, di conseguenza, personale di vita, prendendo spunto dagli esempi virtuosi (ad esempio, dei Paesi del nord Europa), ove vige un forte rispetto del lavoratore, con un corretto bilanciamento della vita professionale con quella personale, senza alcuna riduzione del trattamento retributivo o delle condizioni lavorative.
Antonio di Santo
Avvocato