Si sostituisce all´amica sui social facendo credere che questa sia disponibile ad approcci sessuali: per la Cassazione è stalking
nota di Antonio Di Santo
Negli ultimi anni, la fattispecie illecita degli atti persecutori, prevista e punita dall’art. 612-bis c.p., continua ad essere oggetto di ampia denunzia, con un forte interessamento da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità rispetto alle svariate sfaccettature che tale norma incriminatrice è riuscita e continua ad assumere, altresì in virtù di un sempre più elevato coinvolgimento degli strumenti tecnologici nel nostro quotidiano.
Proprio all’inizio del nuovo anno, è stata depositata un’interessante sentenza, pronunciata dagli Ermellini, in tema di stalking calato nell’ambito dei social network.
Con sentenza del 29/10/2020, il Tribunale di Napoli, parzialmente riformando la pronuncia emessa l’11/10/2017 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, rideterminava favorevolmente la pena nei confronti dell’imputato, per il reato di atti persecutori, in continuazione con quelli di diffamazione e sostituzione di persona.
L’imputato, legato alla vittima da un rapporto di amicizia ormai da svariati anni, veniva condannato alla pena di mesi 10 (dieci) di reclusione, per averle arrecato uno stato d’ansia e di timore, per averla portata ad un mutamento delle proprie abitudini di vita ed amicizie, tramite l’apertura di falsi profili sul social network Facebook e su diversi account Internet, a nome della persona offesa, sostituendosi alla sua persona, ove si proponeva, a suo nome, sessualmente disponibile, impiegando notizie sulle abitudini quotidiane dell’amica, con una diffamazione alla sua onorabilità e facendo sì che la predetta fosse contattata da soggetti sconosciuti, morbosamente interessati a quanto riportato sul web e desiderosi di ricevere il comportamento apparentemente manifestato dalla vittima.
Il condannato in secondo grado di giudizio, tramite il proprio difensore, ricorreva dinanzi la Suprema Corte, sollevando sei motivi di censura e lamentando, in relazione al terzo motivo, la carenza di evidenza probatoria circa l’elemento psicologico del reato e l’evanescenza di quello oggettivo. In sostanza, il ricorrente sosteneva come non avesse mai direttamente perseguitato la vittima, quanto piuttosto ingannato soggetti sconosciuti che, in un successivo momento, si approcciavano alla ragazza.
Parimenti agli altri cinque motivi, ritenuti manifestatamente infondati e, come tali, rigettati dalla Corte di Cassazione, questa dichiarava la terza censura da respingere.
Segnatamente, rispetto all’asserita insussistenza dell’elemento oggettivo del reato di atti persecutori, gli Ermellini inquadravano, nell’ambito di un evidente errore interpretativo, la tesi sostenuta dal difensore del ricorrente.
Orbene, come chiarito dal Collegio, in tema di stalking, l’evento, estrinsecatosi in un cambiamento delle abitudini di vita quotidiana ovvero nel grave stato di ansia o paura indotto nella vittima, deve essere il prodotto della condotta illecita complessivamente valutata, potendo rientrare, altresì, comportamenti anche solo indirettamente e subdolamente rivolti alla persona offesa (sul punto, veniva richiamata Cass. pen., sez. VI, n. 8050 del 12/01/2021, G., Rv. 281081, ove la Corte riteneva legittimamente valutate, altresì, le denunce di natura calunniosa avanzate avverso il marito ed il padre della vittima, nell’ambito di una globale condotta persecutoria).
Non veniva, pertanto, ritenuta rilevante, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, la presenza della persona offesa alle minacce o molestie (in conformità di quanto precedentemente affermato dalla Suprema Corte, Cass. pen., sez. III, n. 1629 del 06/10/2015, dep. 2016, V., Rv. 265809, ove veniva ritenuto integrato il delitto di cui all’art. 612-bis c.p., in virtù della sussistenza, da parte dell’agente, di un preciso atto del sorvegliare o del farsi notare nei luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, a prescindere dal fatto che questa sia presente o assista a tali comportamenti, ovvero dell’attuazione di una condotta minacciosa o molesta nei riguardi di terzi soggetti, connessi alla vittima da un rapporto qualificato, con la finalità di arrecare un indiretto condizionamento delle sue abitudini di vita), tantomeno l’immediata direzione della condotta illecita nei riguardi della già menzionata, allorquando sussista la consapevolezza, da parte del soggetto agente, che la vittima venga informata delle minacce e/o delle molestie e, soprattutto, la consapevolezza della capacità che da tale abituale condotta possa derivare uno degli eventi alternativamente contemplati dall’art. 612-bis c.p. (in tal senso, Cass. pen., sez. V, n. 8919 del 16/02/2021, F., Rv. 280497, ove veniva ritenuto integrato il delitto di atti persecutori, in virtù della ripetuta e morbosa comunicazione di messaggi persecutori, ingiuriosi o minatori, indirizzata a più destinatari connessi alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, con una convinzione, da parte dell’agente, che la vittima ne venga informata e con la consapevolezza dell’idoneità della propria abituale condotta a produrre uno degli eventi alternativamente disposti dalla fattispecie incriminatrice).
Nel caso in esame, le condotte che, in via indiretta, si proiettavano sulla sfera personale della persona offesa, facevano sì che la stessa venisse, quotidianamente, avvicinata da sconosciuti che pretendevano, da parte sua, il comportamento apparentemente manifestato sui social, con un palese effetto persecutorio, estrinsecatosi in stati d’ansia e di timore.
Ad avviso degli Ermellini, l’imputato, tramite una vera e propria “campagna intrusiva ed abusiva” dell’identità della ragazza, risultava essere ben consapevole delle conseguenze dannose derivanti dal proprio comportamento reiterato ed abituale, soprattutto alla luce delle insistenti richieste, precedenti la denuncia, da parte dell’amica di cessare tale condotta.
La Suprema Corte concludeva, pertanto, affermando come “integrano il delitto di atti persecutori le condotte di reiterate molestie, anche se arrecate non direttamente alla persona offesa, attuate sostituendosi alla vittima tramite profili social e account internet falsamente a lei riconducibili, mediante i quali l’agente faccia credere a terzi sconosciuti che costei sia disponibile ad approcci sessuali, tanto da far sì che costoro la avvicinino ripetutamente nei luoghi da lei frequentati, allo scopo di realizzare aspettative di tal genere, ove l’autore delle condotte agisca nella consapevolezza della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice”.
In altre parole, l’evento, consistente nel mutamento delle consuete abitudini di vita ovvero in un grave stato di ansia o di paura indotto nella vittima, deve rappresentare il risultato della condotta illecita complessivamente valutata; condotta, questa, ricorrente, altresì nell’ambito di comportamenti indirettamente rivolti avverso la persona offesa ovvero di natura subdola come, nel caso di specie, la sostituzione di persona finalizzata a palesare una disponibilità della vittima ad offerte sessuali verso un’indeterminata pluralità di soggetti terzi contattati, sul web, tramite falsi account o profili social.
Circa, poi, la lamentata insussistenza dell’elemento psicologico del reato, il Collegio affermava come la consapevolezza dell’idoneità lesiva della condotta tenuta dal soggetto agente fosse da ricercare nelle ripetute richieste – prive di riscontro – della vittima di cessazione del comportamento morboso e molesto.
Dall’analisi di tale pronuncia di legittimità emerge come il reato di atti persecutori, originariamente configurandosi in comportamenti molesti e/o morbosi direttamente rivolti avverso la vittima ovvero in pedinamenti, appostamenti, telefonate o visite sgradite presso il proprio domicilio o i luoghi abitualmente frequentati dalla già menzionata, abbia subito una vera e propria evoluzione, con un innalzamento del livello di tutela offerto dall’ordinamento giuridico e di adattamento, non assolutamente scontato da parte della stessa giurisprudenza di merito e di legittimità, rispetto agli strumenti e, pertanto, alle insidie offerte dalla tecnologia, ovvero, in particolar modo, dai social network, “teatro” di svariate fattispecie illecite, con una severa punizione anche di condotte solo indirettamente incidenti sulla sfera personale della persona offesa.