La Corte di Cassazione è tornata a riflettere su una delle questioni più delicate che negli ultimi anni ha travagliato il diritto di famiglia: l’elaborazione e l’applicazione della cosiddetta ‘Sindrome da alienazione parentale’ (PAS), consistente in un pernicioso condizionamento da parte di un genitore che ostacola o impedisce l’istaurarsi di un proficuo e continuativo rapporto con l’altro genitore. La Suprema Corte afferma chiaramente i limiti e le criticità di siffatta creazione della psicologia più recente, elevando l’interesse del minore a principio guida nelle scelte compiute dai togati.
La dolorosa fine di una relazione extraconiugale, dalla quale era nato un figlio, è la premessa di una difficile gestione dell’affidamento condiviso: un decreto del Tribunale per i Minorenni di Roma aveva disposto la decadenza dall’esercizio della potestà genitoriale della madre e l’immediato allontanamento del minore dalla dimora familiare, nonché il collocamento dello stesso presso una casa-famiglia e la sospensione di ogni rapporto tra madre e figlio. La motivazione della grave decisione era rinvenuta nell’improcrastinabile necessità di consentire al minore la legittima instaurazione di un rapporto con il padre: la madre ne avrebbe, infatti, costantemente ostacolato la frequentazione, generando, secondo la CTU, una sindrome da alienazione parentale.
La Suprema Corte di Cassazione, dopo avere preliminarmente dichiarato ammissibile il ricorso, accoglieva sei dei nove motivi, trattandoli unitariamente e, attraverso un argomentare accurato e appassionato censurava l’atteggiamento delle Corti territoriali di primo e secondo grado, che avrebbero compiuto l’errore, nell’intento di soddisfare il legittimo diritto del padre al rapporto con il figlio, di separare con violenza quest’ultimo dalla figura materna, lacerando consuetudini di vita e legami affettivi.
Il principio della bigenitorialità e la preminente protezione del minore: la composizione degli interessi e lo spettro della PAS.
La decisione in esame si muove alla ricerca di un nuovo bilanciamento tra due principi fondamentali del diritto di famiglia: la bigenitorialità e la protezione del minore. La bigenitorialità è una mera espressione del più generale interesse del minore, ma molto spesso, anche a causa di costruzioni prive di fondamento empirico, come la PAS, risulta soverchiante rispetto alla difesa del soggetto più debole.
Il richiamo alla bigenitorialità è ormai da tempo penetrato sia nella nostra legislazione, con la generale previsione dell’affidamento condiviso, sia nella giurisprudenza di legittimità, declinato quale affermazione del diritto del minore a crescere contando sulla presenza di entrambi i genitori, costruendo con essi relazioni stabili e un percorso affettivo soddisfacente e sereno (cfr. Cass. Civ. n. 28723/2020; n. 9764/2019; n. 18817/2015; n. 11412/2014).
Anche rispetto a tale obiettivo, però, l’interesse del minore deve prevalere, essendo, come afferma la Corte di Cassazione, ‘superiore’ e ‘sostanziale, rappresentato dalla previsione dell’art. 337-ter c.p.c. e art. 8 Cedu e dalla ratifica, operata dall’Italia con la legge n. 176/1991, della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: “il miglior interesse del minore configura un principio giuridico interpretativo fondamentale: se una disposizione di legge è aperta a più di un’interpretazione, si dovrebbe scegliere l’interpretazione che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore”. Giunge a conclusioni conformi anche l’arresto esaminato, affermando che “pur riconoscendo all’autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo” (ex multis, Corte Edu, 4 maggio 2017, Improta v. Italia).
Specificamente, la novità della sentenza n. 9691/2022 consiste nell’avere ridefinito i confini della bigenitorialità, da ritenersi valore ancillare e funzionale alla difesa del minore, sferrando un deciso colpo alla ‘teorica della PAS’. In particolare, la Corte ritiene che la ‘sindrome da alienazione parentale’, che si concretizza in una sorta di ‘patto di lealtà’ stretto tra il minore e il genitore alienante, nonché ogni suo “più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre” (Cass. Civ., n. 13217/21). In altre parole, l’alienazione messa in atto da un genitore deve essere provata secondo i consueti strumenti processuali, non potendosi dedurre da essa, ipso iure, la decadenza della potestà genitoriale (come avvenuto nel caso in esame).
Considerazioni conclusive: la sentenza in commento si fonda sull’idea che la bigenitorialità non possa essere perseguita fino al punto da mettere in discussione il preminente interesse del minore: essa è un diritto del minore, prima ancora che del genitore e, semmai, quello che deve essere provato non è l’esistenza o meno di un comportamento alienante (criterio privo di verificabilità scientifica), quanto il concreto danno o, addirittura, l’irrecuperabilità del rapporto genitore/figlio. D’altra parte, il diritto sovranazionale aveva già chiarito l’illegittimità di una decisione che, come sanzione alla mera difficoltà (quant’anche cagionata da uno dei genitori) di esercizio del ruolo parentale, preveda una brusca interruzione della vita familiare e un brutale annientamento della vita emotiva del minore: la tutela del minore si tramuterebbe nel peggior danno che gli possa venire cagionato.