Trattativa Stato-mafia, i motivi della decisione dei giudici
La sentenza della Seconda Corte d’Assise di Palermo ha stabilito che la trattativa Stato-mafia non c’è stata. Ha ribaltato la sentenza di primo grado, secondo cui la trattativa ha avuto luogo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il verdetto della Seconda Corte d’Assise di Palermo smentisce l’idea che l’opinione pubblica si è fatta in questi anni, cioè che la Trattativa è esistita. Abbiamo messo la T maiuscola in quanto chi sostiene la tesi della sua esistenza pensa a qualcosa di complesso e di articolato e non a trattative singole, fatte caso per caso in base alle necessità contingenti. Un po’ come nei telefilm, in cui i poliziotti propongono ai criminali degli accordi in cambio di un aiuto nelle indagini.
Quindi, al massimo si può parlare di trattative e non di Trattativa Stato-mafia.
GLI IMPUTATI
È normale che fare il proprio dovere giudici ed esponenti delle Forze dell’Ordine debbano concedere qualcosa ai malavitosi. Certo, il rischio di collusione esiste. Tuttavia, alcuni elementi depongono a favore degli imputati.
Mario Mori è stato braccio destro di Falcone Giuseppe Di Donno e Antonio Sobranni sono stati accusati sulla testimonianza di Ciancimino, che si è dimostrato un collaboratore di giustizia inaffidabile. Marcello Dell’Utri è stato accusato sulla base di un papello di Totò Riina, che è un falso. Il suo coinvolgimento è stato visto anche come un tentativo di colpire il governo Berlusconi, che sarebbe stato colluso con la mafia. Berlusconi ha inasprito il 41 bis.
Oltre a loro sono stati completamente scagionati Nicola Mancino e Calogero Mannino, che erano già stati assolti in precedenza. Infine, ne è uscita pulita la memoria di Francesco Di Maggio, morto nel 2002. È stato il primo giudice a occuparsi della presenza della mafia al Nord.
I CAPI D’IMPUTAZIONE DEL PROCESSO SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA
Ma che cosa sarebbe consistita questa trattativa Stato-mafia? In promesse di alleggerimento del 41 bis e addirittura di scarcerazioni in cambio della cessazione degli attacchi fatti con fatti con bombe. Nessuna delle due cose si è verificata. Inoltre, i capi d’imputazione non riguardavano la trattativa (che non è reato e, infatti, i pm non lo hanno mai detto) ma minacce e intimidazioni, sulla base dell’articolo 338 del codice penale.
Insomma, secondo l’accusa le Forze dell’Ordine e alcuni politici erano conniventi. Anche per i fatti del 1992 e del 1993. Invece, non è vero. Ed è difficile immaginare uomini (stimati) dell’Arma che minacciano dei politici o dei magistrati. Mentre non è difficile pensare a dei mafiosi che lo fanno.
È vero, gli ufficiali dei Carabinieri hanno contattato i boss per capire come far cessare gli attacchi allo Stato e alla cittadinanza. Questo non significa essere collusi. Secondo un capo d’imputazione, queste azioni avrebbero spinto la mafia a diventare ancora più violenta. Tuttavia, si dovrebbe contestare loro il reato di dolo. Bisognerebbe accusare questo una persona come Mori. Improbabile. Qualcuno ha detto: “Ma quando hanno rapito Aldo Moro lo Stato non ha trattato con i brigatisti”. Infatti, lo hanno ucciso. E poi era passata una quindicina d’anni.
CHE COSA C’INSEGNA IL PROCESSO SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA?
Il fatto che ci siano state due sentenze diametralmente opposte ci fa capire che la magistratura non è un blocco monolitico. Un’altra cosa che abbiamo capito (da tempo) è che spesso le indagini vengono condotte sulla base d’ideologie e di preconcetti e non di prove, fatti e indizi. Auspichiamo che la Riforma Cartabia risolva questo problema. In terzo luogo, le prove devono essere affidabili e non dei fake. Infine, non si deve per forza soddisfare l’opinione pubblica e la percezione generale se quello che sostengono non è supportato da fatti concreti e se nessuna legge è stata infranta. Ne va della serietà della magistratura e della vita delle persone.
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