Riforma del processo penale: no all’applicazione retroattiva del regime dell’improcedibilità
Il meccanismo estintivo di cui all’art. 344-bis c.p.p. risponde allo scopo di compensare e riequilibrare la non operatività della prescrizione nei giudizi di impugnazione
Si tratta di un meccanismo operante allorquando il giudizio di appello e quello dinanzi la Suprema Corte non vengano definiti entro specifici termini ed ovvero, segnatamente nel primo caso di nostro maggiore interesse, nel caso in cui il giudizio di secondo grado non sia definito decorsi 2 anni, dai 90 giorni successivi al termine previsto per il deposito della sentenza del giudice di prime cure, con possibilità di proroga dei termini qualora si tratti di procedimenti di particolare complessità (ad esempio, per numero di imputati, imputazioni o questioni, di fatto o di diritto, da trattare) e con relativa impossibilità di applicazione della nuova procedura nei procedimenti per i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti.
Ciò premesso, si vuole indagare circa la possibilità di rendere retroattiva l’applicazione dell’art. 344-bis c.p.p., ai sensi del principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo di cui all’art. 2, comma 4, c.p. (“Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”).
Senza alcuna pretesa di approfondimento ma solo di breve cenno circa un’eventuale questione di compatibilità costituzionale, totale e parziale, del nuovo istituto che esula da questa sede, sarà essenziale procedere ad un accertamento dei limiti di operatività della previsione, altresì, in relazione alle vicende in itinere.
Come su può notare dalle seguenti considerazioni, il nuovo istituto d’improcedibilità deve inquadrarsi quale uno strumento altamente ibrido e, non già solo processuale oppure solo sostanziale, con impossibilità di riconducibilità, sic et simpliciter, al regime favorevole di cui all’art. 2 c.p.
La mera condivisione della tesi della sua operatività si porrebbe, invero, in contrasto con il fine ultimo sotteso alla nuova norma, ricollegata alla cessazione della prescrizione.
Come emergerà dalla presente disamina, la disposizione di cui all’art. 344-bis c.p.p. risulta connessa ad una situazione inedita e specifica che la differenzia dalla possibilità di un’estensione retroattiva a situazioni diverse o, comunque, in itinere.
Ora, pur volendo indagare le fondamenta argomentative della tesi opposta a sostegno dell’applicazione retroattiva della nuova norma, ai sensi dell’art. 2 c.p. e, pertanto, del principio del favor rei, risulta essenziale ricordare come il legislatore abbia previsto una particolare disciplina, in base alla quale le nuove disposizioni in tema di improcedibilità si applicano solo nei procedimenti di impugnazione relativi a reati commessi dal 1° gennaio 2020 (data di entrata in vigore della Legge 9 gennaio 2019, n. 3 – c.d. “Legge Spazzacorrotti” – la quale aveva introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado), introducendo, pertanto, una sorta di retroattività “mitigata” ovvero “parziale”.
Un’eventuale applicazione retroattiva “piena” rispetto a fatti di reato commessi antecedentemente alla data del 1° gennaio 2020, costituirebbe, peraltro, una grave violazione dei dettami legislativi introdotti dalla nuova norma e costituzionali di cui, a titolo esemplificativo, agli artt. 3 e 111 Cost.
In particolar modo, la scelta compiuta dal legislatore di limitare l’applicazione della nuova disciplina dell’improcedibilità ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della Legge Bonafede è da valutare con riferimento al principio di ragionevolezza, a prescindere dalla natura, di carattere sostanziale o processuale, dell’istituto di cui al nuovo art. 344-bis c.p.p.
Per ipotesi, se si tratta di un istituto di diritto sostanziale, la retroattività con effetti in mitius può essere legittimamente esclusa dal legislatore sulla base di ragionevoli motivi, mentre se si tratta di un istituto di natura processuale, sulla scorta del principio tempus regit actum, dovrebbe applicarsi, altresì, ai procedimenti per fatti commessi prima del 1° gennaio 2020: anche in tal caso la deroga all’applicabilità della nuova disciplina andrebbe, tuttavia, valutata alla luce del principio di ragionevolezza.
In mancanza di una norma transitoria, il nuovo art. 344-bis c.p.p. si applicherebbe a tutti i processi di secondo grado e di legittimità, a partire dall’entrata in vigore della legge, indipendentemente dalla data di commissione del reato.
È pacifico, però, che il legislatore può prevedere una disciplina transitoria che limiti ragionevolmente i procedimenti interessati dalla riforma.
Posto che la “riforma Cartabia” presuppone un ingente sforzo organizzativo, in particolar modo per le Corti d’Appello, il legislatore ha previsto una gradualità nella sua applicazione, consentendo alla macchina della giustizia di organizzarsi, al fine di garantire un’uniformità applicativa a tutti i procedimenti.
Proprio a tal fine, è sembrato ragionevole limitarne l’applicazione ai reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020 che, per effetto della legge Bonafede, sono diventanti di fatto imprescrittibili dopo il primo grado.
Rispetto a questi reati l’improcedibilità è l’unica via per porre una fine a un processo di appello e di cassazione a tempo indeterminato.
Viceversa, per i reati precedentemente commessi continua ad operare anche in appello e in cassazione il rimedio della prescrizione del reato, garantendo così che il processo abbia una fine.
Si tratta di una soluzione, questa, estremamente equilibrata, che appare, del tutto, conforme ai principi costituzionali, di cui agli artt. 3 e 111.
Ebbene, la formulazione di cui alla Legge 27 settembre 2021, n. 134, intitolata “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 237 del 04 ottobre 2021 ed entrata in vigore il 19 ottobre 2021, sembra richiedere un diverso approccio per la soluzione della questione, giustificato, ad esempio, dalla nuova formulazione dell’art. 161 bis c.p. e al venir meno della previsione dell’art. 129 c.p.p. per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, non essendo più contemplata la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione in ogni stato e grado, ma solo eventualmente in primo grado.
Il profondo mutamento strutturale dei precedenti sistemi Orlando (Legge n. 103/2017) e Bonafede, da parte della riforma Cartabia, induce, quindi, ad escludere, su un piano, altresì, costituzionale, la retroattività di quest’ultima.
Peraltro, come da ultimo diffuso dai media, la Guardasigilli, al fine di rispettare i termini di cui al PNRR, ha già provveduto alla formazione di cinque commissioni che, con 48 componenti tra docenti universitari, magistrati e avvocati, congiuntamente ai tecnici del preposto ufficio legislativo, formuleranno, nel dettaglio, le disposizioni che hanno ottenuto il via libera al Parlamento, tra cui, proprio, il nuovo regime di improcedibilità, al fine di impedire che la nuova disciplina possa essere applicata, in via (eccessivamente) discrezionale, in violazione del fine ultimo della nuova normativa, evitando situazioni di pericoli vuoti legislativi e di abnormità in capo alla magistratura giudicante, oltre che di violazione costituzionale ex artt. 111, comma 2 e 112.
Non dovrebbe, pertanto, allo stato attuale, essere accolta un’eventuale questione di legittimità costituzionale, come, senza dubbio, molti colleghi faranno, nelle more di un intervento legislativo, già prontamente avviato dalla Guardasigilli come sopra anticipato, finalizzato alla maggior definizione dei contenuti apportati dalla “riforma Cartabia”, non sarebbe rilevante un interessamento, “meramente” giurisprudenziale, da parte della Consulta.
Risulta, quindi, essenziale non trascendere in interpretazioni estremamente discrezionali ed abnormi, al fine di non “tradire” le originarie intenzioni legislative ed attendere maggiori chiarimenti da parte del legislatore, per garantire un’uniformità e correttezza applicativa della nuova disciplina in materia di improcedibilità, in virtù del massimo rispetto dei superiori dettami costituzionali.
Un’applicazione retroattiva totale della nuova disciplina d’improcedibilità non farebbe, invero, altro che contraddire il principio di ragionevole durata del processo, in quanto si giungerebbe, non solo ad una violazione di quanto previsto legislativamente rispetto ai termini di vigenza della nuova disciplina, ma, altresì, ad una delle risposte più “vuote” e nichilistiche che il nostro ordinamento giuridico potrebbe dare, nella più completa inosservanza dell’art. 111, comma 2, e art. 112 Cost., dal momento che sarebbe contraddittorio imporre l’esercizio dell’azione penale, così come provveduto dal Pubblico Ministero, e consentire che questa resti senza risposta!
Si avrebbe, altresì, una violazione dell’art. 3 Cost., ovvero del principio di eguaglianza, in quanto, antecedentemente ai maggiori chiarimenti che verranno forniti dal legislatore rispetto al nuovo regime d’improcedibilità, ciascuna Corte d’Appello o di Cassazione potrebbe decidere, arbitrariamente, rispetto al proprio “sentire”, sconfinando in un potere legislativo in continua formazione, senza attendere, ragionevolmente, i dovuti tempi organizzativi da parte delle commissioni nominate dalla Guardasigilli per la stesura dei dovuti chiarimenti applicativi che possano assicurare una risposta uniforme da parte dell’ordinamento giuridico.
Senza alcuna pretesa di approfondimento della validità della risposta fornita dalla “riforma Cartabia” rispetto alle ben note problematiche che affliggono, ormai da anni, il sistema giudiziario italiano, rispetto alla ragionevole durata dei processi, non può non osservarsi come la disciplina dell’improcedibilità costituisca una figura abnorme, senza precedenti e, soprattutto, inclassificabile in qualsivoglia inquadramento giuridico già presente, dal momento che, non si assiste all’estinzione del reato, bensì a quella del processo, lasciando in vita la fattispecie illecita.
Orbene, ci si dovrebbe chiedere con quali conseguenze si possa esercitare un simile potere che, di fatto, costituirebbe uno snaturamento dei poteri giudiziari ed un loro debordamento? Sulla scorta di quali presupposti e guide lines legislative che, al momento, non risultano ancora sussistenti?
Il rischio di addentrarsi in un pericoloso e insidioso terreno, che fuoriesce dal campo di competenza del potere giudiziario, sarebbe elevatissimo, con l’evidente alea di una pronuncia incerta, priva dei corretti fondamenti giuridici e non adeguatamente supportata, con conseguente lesione delle posizioni soggettive riconducibili alle parti ivi coinvolte.
Come sapientemente esaminato dalla Suprema Corte, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Sezione Penale, all’interno della relazione n. 60 del 3 novembre 2021, in linea generale, l’art. 344-bis c.p.p. si applica esclusivamente ai procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020.
La norma realizza, quindi, un’ideale “saldatura tra la disciplina della prescrizione “sostanziale” e quella della c.d. “prescrizione processuale” individuandone un medesimo ambito di operatività con riferimento ai soli giudizi in cui, per effetto della riforma e, soprattutto, dell’introduzione dell’art. 161-bis c.p., la prescrizione non può più essere dichiarata nel giudizio di impugnazione”.
Come noto, in dottrina si è, tuttavia, discusso sulla possibilità di estendere l’ambito di applicabilità della norma, altresì, ai reati commessi prima del 1° gennaio 2020, ancorando le soluzioni ipotizzabili alla natura sostanziale o processuale dell’istituto.
È stato, infatti, sostenuto che, “pur qualificato come causa di improcedibilità, l’istituto in esame presenta una natura mista, processuale e sostanziale, incidendo, al pari della prescrizione, sulla punibilità dell’imputato. Seguendo tale impostazione ermeneutica, dunque, alla c.d. “prescrizione processuale” introdotta dall’art. 344-bis cod. proc. pen. dovrebbero applicarsi le garanzie costituzionali relative ad entrambi i piani, e, con riferimento a quello sostanziale, il principio della retroattività della disposizione più favorevole”.
Va, peraltro, segnalato che anche con riferimento alla querela, la pronuncia delle Sezioni Unite Salatino ha aderito alla tesi ermeneutica che ne sostiene la natura mista, sostanziale e processuale (Sez. U, n. 40150 del 21/6/2018, Salatino, in motivazione; conf. Sez. 2, n. 21700 del 17/4/2019, Sibio, Rv. n. 276651; Sez. 2, n. 225 del 8/11/2018, dep. 2019, Mohammad Razzaq, Rv. n. 274734). In particolare, gli Ermellini hanno affermato che, sebbene dalla collocazione dell’istituto, all’interno del codice, emerga con evidenza la sua vocazione essenzialmente processuale, quale condizione di procedibilità, la querela presenta anche dei tratti di carattere sostanziale, in considerazione della sua attitudine a condizionare la concreta punibilità del reato.
Innanzitutto, vanno considerate sia la sua collocazione topografica nell’ambito delle condizioni di procedibilità dell’azione che le modalità operative del maccanismo estintivo previsto dalla disposizione in cui il superamento della forbice temporale predefinita dal legislatore, salvo eventuali proroghe, incide, non sull’esistenza del reato, ma sulla possibilità di proseguire l’azione penale in quanto estinta.
Rileva, inoltre, anche la stessa ratio ispiratrice della disposizione in esame in quanto volta a garantire all’imputato, una volta bloccata l’operatività della prescrizione del reato con la sentenza di primo grado, la ragionevole durata del processo attraverso la specifica individuazione dei termini entro i quali deve concludersi ciascuna fase di impugnazione.
Al diverso inquadramento dogmatico dell’istituto, come causa di estinzione dell’azione penale e non del reato, conseguirebbe, pertanto l’irretroattività della disciplina secondo il diverso principio “tempus regit actum”.
Ove si ritenesse di propendere per la natura sostanziale, o, comunque, mista, dell’istituto, si potrebbe, tuttavia, prospettare una possibile illegittimità costituzionale della norma per il suo attrito con l’art. 3 Cost. con riferimento al profilo della violazione del principio della retroattività della legge più favorevole.
Come visto, è, infatti, lo stesso legislatore che, attraverso la disciplina transitoria in questione, ha escluso espressamente la retroattività, anche in melius, dell’art. 344-bis c.p.p. ai reati commessi in data antecedente il 1° gennaio 2020.
La disciplina pare, comunque, rispondere alla evidente esigenza di introdurre un correttivo che, alla cessazione del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado, assicuri, comunque, una ragionevole durata del successivo giudizio di impugnazione.
Il meccanismo estintivo introdotto all’art. 344-bis c.p.p. risponde, in altri termini, ad una finalità compensativa e riequilibratice correlata alla non operatività dell’istituto della prescrizione nei giudizi di impugnazione relativi a reati commessi dal 1° gennaio 2020, istituto di cui, invece, possono beneficiare tutti gli imputati di reati commessi in data antecedente secondo la disciplina già modificata dalla legge n. 103 del 2017 (c.d. riforma Orlando).
Potrebbe, dunque, ritenersi che, proprio in ragione di tale finalità dell’istituto in esame, la sua delimitazione temporale risponda ad un criterio di ragionevolezza che la pone al riparo da possibili frizioni con i principi costituzionali e convenzionali.
Tale conclusione sarebbe, infatti, coerente con il percorso tracciato dalla giurisprudenza costituzionale che, riconducendo il principio di retroattività della legge più favorevole nell’ambito del principio di uguaglianza, ammette la possibilità che il legislatore introduca deroghe o limiti purché questi rispondano ad un criterio di ragionevolezza.
Infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del 2020, conformemente alla costante la giurisprudenza costituzionale, il principio della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, comma 2, Cost. (sentenza n. 63/2019) – “la cui ratio immediata è […] quella di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale”.
Tramite tale pronuncia, la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 318-octies del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che la causa estintiva contemplata nell’art. 318-septies cod. ambiente, non si applichi ai procedimenti in relazione ai quali sia già stata esercitata l’azione penale alla data della sua entrata in vigore, per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto – ma al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., “che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394/2006).
Da ciò deriva che, mentre l’irretroattività in peius della legge penale rappresenta un “valore assoluto e inderogabile”, la regola della retroattività in mitius della legge penale medesima “è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli” (sentenza n. 236/2011).
Da ultimo, circa il criterio di valutazione della legittimità costituzionale delle deroghe al principio di retroattività della legge più favorevole, la Consulta ha ribadito che tale principio può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo, in quanto la scelta di derogare alla retroattività “deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole” (sentenza n. 393/2006).
Ad un occhio più attento non potrà sfuggire come vi sia, poi, un’alta possibilità di censura da parte della Consulta rispetto ad una disciplina che ha, fin da subito, generato un gran discredito, con un riflesso mutamento dell’intera disciplina costituzionale del processo e, segnatamente, dei sommi principi di cui agli artt. 111, comma 2 e 112 Cost., oltre che degli artt. 3 e 27, comma 2, Cost.
L’applicazione “retroattiva totale” del nuovo regime d’improcedibilità richiederebbe, oltretutto, un proseguo del giudizio per gli effetti civili, ai sensi del nuovo comma 1 dell’art. 578 c.p., non più dinanzi il giudice penale, bensì in sede civile, con un conseguente prolungamento dei termini di giustizia per la parte civile e l’impossibilità di assicurare un’adeguata risposta di giustizia in favore di quest’ultima, soprattutto alle luci delle critiche interazioni tra processo penale e processo civile.
In conclusione, rispetto al quesito circa la configurazione di un fenomeno di successione delle leggi penali nel tempo che impone l’applicazione della lex mitior a tutti i fatti anteriormente commessi, rispetto all’introduzione della nuova causa d’improcedibilità, si ritiene come la maniera più lineare per sciogliere tale nodo sia quella di far leva sull’espressa ed esplicita scelta legislativa di limitare l’efficacia retroattiva della nuova previsione ai soli procedimenti d’impugnazione relativi a fatti di reato commessi successivamente al 1° gennaio 2020.
Tale delimitazione cronologica trova il proprio fondamento nella ratio della nuova disposizione, finalizzata a fare da contrappeso alla normativa della prescrizione ove il decorso del tempo, ai fini dell’estinzione del reato, trova il suo blocco con la pronuncia da parte del giudice di prime cure.
Il nuovo istituto trova, invero, applicazione solo ai procedimenti d’impugnazione concernenti fatti di reato realizzati successivamente al 1° gennaio 2020, proprio perché risulta collegato, in maniera indissolubile, alla normativa della prescrizione del reato di cui alla sopracitata Legge n. 3/2019.
Se l’art. 344-bis c.p.p. ha la finalità di temperare gli esiti della legge penale sostanziale sfavorevole, come quella di cui alla Legge n. 3/2019, allora la normativa introdotta dalla “riforma Cartabia” non è da reputare autonoma e tale da inquadrare nei termini di lex mitior applicabile a fattispecie illecite diverse da quelle per cui è stato disposto il blocco del decorso dei termini della prescrizione del reato, a seguito della pronuncia di primo grado.
In particolar modo, l’istituto di cui all’art. 344-bis c.p.p. risulta insuscettibile di un’applicazione retroattiva che possa estendersi, altresì, alle condotte anteriori al 1° gennaio 2020, giacché gli effetti sostanziali sulla punibilità di tale norma processuale non si riflettono, genericamente, su ogni reato, ma solo su quelli per cui la legge penale sostanziale prevede la non prescrittibilità dopo il giudizio di primo grado.
Quindi, dal momento che la cessazione del decorso del tempo, ai fini della prescrizione a seguito del giudizio dinanzi il giudice di prime cure, costituisce disciplina applicabile soltanto ai fatti commessi dal 1° gennaio 2020 in poi nonché disciplina sfavorevole, non applicabile a condotte anteriori, nemmeno la nuova causa di improcedibilità, il cui fine è quello di far da contrappeso alla precedente disciplina, può risultare applicabile ai fatti commessi prima del 1° gennaio 2020, ovvero alle vicende cui non si applica la legge sfavorevole n. 3/2019 e per cui non opera il blocco del corso della prescrizione dopo la pronuncia di primo grado.