Esecuzione della pena e giustizia riparativa in Italia Riforma Cartabia
Che, in Italia, almeno allo stato attuale dell’arte, vi sia poco spazio di riconoscimento del ruolo della vittima, risulta una circostanza, a dir poco, indiscutibile, con un maggior accentramento verso la figura dell’autore di reato.
Basti pensare, ad esempio, al dettato dell’art. 27, comma 3, Cost. che ha istituito un modello di pena incentrato, non già alla retribuzione, ma al recupero sociale del reo nonché agli ampi spazi, anche sul piano delle fonti primarie che disciplinano l’esecuzione della pena, dedicati al condannato, a differenza dei rari riferimenti in relazione alla vittima.
In questo quadro, sempre più forti si sono fatte le rivendicazioni per un ripensamento dello status della vittima, con l’evidente bisogno di operare un ri-bilanciamento delle due posizioni soggettive, proprio attraverso i pilastri su cui poggia il sistema della giustizia riparativa.
Ebbene, un netto cambio di rotta si è registrato, di recente, con la definitiva approvazione, intervenuta lo scorso 24 settembre, da parte del Senato, del Disegno di legge n. 2353 contenente la “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti penali” e, in particolar modo, con uno degli emendamenti al D.d.l. fortemente desiderato da Marta Cartabia, Ministra della Giustizia, in materia di disciplina organica della giustizia riparativa, in conformità con quanto previsto dalla direttiva europea (2012/29/UE) nonché nel rispetto delle posizioni soggettive sia della vittima sia dell’agente.
Bisogna, fin da subito, precisare come almeno in Italia, diversamente dalle esperienze europee ed internazionali, non vi sia sufficiente conoscenza culturale e sociale ma, soprattutto, uno spazio normativo preformato in grado di assicurare un’omogenea applicazione sul territorio nazionale.
Sul punto, non può non evidenziarsi come la giustizia riparativa sia nata tra il Canada e gli Stati Uniti agli albori degli anni ’70, sotto forma di un contatto riparatorio tra agente e vittima, congiuntamente all’intervento di un terzo soggetto.
Da qui, un primo quesito, sorge spontaneo:
chi si vuole identificare con il termine “vittima”?
Non bisogna solo pensare alla persona offesa ma vi sono tanti altri soggetti, “toccati” dal potere statuale, a risultare vittime, tanto che, con la risoluzione n. 40/34 del 28 novembre 1985, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il novero delle vittime è stato ampliato, per ricomprendere, non solo le vittime del crimine, ma altresì quelle dell’abuso di potere.
Anche la c.d. “riforma Cartabia” ha fatto riferimento ad una “nuova” definizione, almeno per l’ordinamento giuridico italiano, di “vittima”, identificandola in qualunque persona fisica che ha riportato un danno psico-fisico ovvero economico, direttamente causato da un reato.
Ciò premesso, bisogna constatare come in Italia vi sia una forte confusione tra i piani rieducativi, riparatori e riparativi.
Considerazioni critiche possono, invero, svilupparsi in merito a svariati sistemi presenti nel nostro ordinamento giuridico. Nell’ambito della riabilitazione, l’art. 179, comma 4, c.p. prevede come la riabilitazione non possa essere concessa allorquando il condannato non abbia adempiuto alle obbligazioni civili derivanti dal reato, a patto che comprovi di trovarsi impossibilitato a adempierle oppure, in materia di liberazione condizionale, l’art. 176, ultimo comma, c.p. condiziona la concessione della misura alla prova dell’assolvimento da parte del condannato delle obbligazioni civili derivanti dal reato e, da ultimo, l’art. 47, comma 12, o.p., fa emergere profili di estrema incertezza applicativa rispetto alla fase di valutazione finale dell’affidamento in prova del condannato da parte del Tribunale di sorveglianza, in caso di esito negativo del percorso di mediazione.
Dai rilievi già indicati, sembrerebbe potersi affermare come ancora l’Italia sia estranea dalla giustizia riparativa ma, come spesse volte accade nel nostro ordinamento e nella nostra società, l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale, di cui all’art. 47, comma 7, della Legge n. 354/75, è stato impiegato, come una sorta di via di fuga dall’esecuzione stessa (basti pensare ai molteplici tentativi in ambito dei crimini dei colletti bianchi), solamente previo risarcimento dei danni o formale promessa di adempimento.
Si è, quindi, andata instaurando una pericolosa prassi che esula dai confini della giustizia riparativa, dimenticando quei tratti caratteristici della mediazione penale e concentrandosi su mere operazioni transattive, fondate sulla stipula di un vero e proprio patto economico.
Ad ogni modo, anche una piena apertura del ruolo della vittima all’interno della fase esecutiva della pena e dinanzi il magistrato di sorveglianza potrebbe arrecare nocumento alla finalità rieducativa e di recupero del condannato, con uno sconfinato spazio alla proposizione di richieste, dettate solo da mero spirito di rivendicazione e vendetta, poco incentrate all’oggettività ed imparzialità.
Le difficoltà pratiche di un inserimento, seppur graduale, di un impianto di giustizia riparativa non sembrano arrestarsi qui.
La scarsa formazione dei magistrati, degli educatori in ambito penitenziario e degli assistenti sociali, oltre ad una mancanza di sensibilità in materia e ad una carenza organizzativa circa i canali di dialogo tra tali soggetti, renderebbe molto difficoltosa una costante comunicazione.
Inoltre, anche in caso di stesura di un progetto riparativo, di cui, almeno in teoria, non si dovrebbe tenere conto nell’eventualità di esito negativo, sarebbe difficile operare una valutazione oggettiva sui rischi derivanti in capo alle vittime, in relazione all’eventuale concessione di determinati benefici (anche qui, non si ravvisa alcun canale diretto di comunicazione tra magistratura di sorveglianza e servizi di assistenza alle vittime).
Urge, pertanto, una tempestiva riforma della giustizia riparativa e, secondo molti sostenitori, la riforma Cartabia potrebbe essere l’elemento chiave.
Come già anticipato, la riforma, non solo, pone attenzione alla vittima, con relative modifiche sul piano sostanziale e procedurale dell’attuale impianto penale, ma prevede la formazione di appositi centri di giustizia riparativa in tutta Italia (per un pieno diritto di accesso), con individuazione di appositi requisiti formativi degli operatori e di erogazione dei programmi di restorative justice.
Non ci resta, da ultimo, che attendere l’evolversi della riforma per comprenderne l’effettiva portata “rivoluzionaria” e ricordare come il diritto non debba essere considerato in maniera statica ed assoluta ma come una realtà dinamica e flessibile, in continuo mutamento ed evoluzione, rispetto ai cambiamenti in cui si trova insito, con la finalità di disciplinare il “quadro” sociale e culturale di un determinato frangente storico, soddisfacendo le esigenze di tutte le posizioni soggettive meritevoli di tutela ordinamentale.
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