L’eccessiva discrezionalità dei poteri decisori della Corte Arbitrale dello Sport nella decisione 10 novembre 2020
Dal 1° al 3 novembre 2019, a Sepang (Malesia) si svolgeva il Campionato Mondiale di MotoGP, al quale prendeva parte il pilota italiano Andrea Iannone.
Durante l’ultima giornata, lo sportivo veniva sottoposto ad un controllo antidoping a seguito del quale veniva riscontrata la presenza di drostanolone nel proprio organismo (una sostanza proibita dal WADA 2019 Prohibited List essendo uno steroide androgeno anabolizzante).
1. La condanna in primo grado
Nel corso del giudizio di primo grado instaurato presso la Corte Disciplinare Internazionale della Federazione Internazionale di Motociclismo, l’atleta invocava l’applicazione dell’art. 10.5.1.2 del Codice antidoping, in quanto, essendo un gran consumatore di carne, anche durante il suo soggiorno in Malesia e Singapore, la probabilità di una contaminazione della carne da steroidi anabolizzanti sarebbe stata molto alta.
La Corte rigettava, però, tale tesi, sul presupposto in quanto l’atleta non si sarebbe prodigato per accertarsi della presenza di eventuali contaminazioni sussistenti nel cibo da consumare e non avendo, quindi, esercitato il dovere e la cura a cui era obbligato per garantire che nessuna sostanza proibita entrasse nel proprio organismo.
Visto, tuttavia, il quantitativo ridotto della sostanza proibita, la Corte, accogliendo la tesi della non intenzionalità della contaminazione, infliggeva una sanzione ridotta di soli 18 mesi di squalifica professionale, anziché di 4 anni, come previsto dall’art. 10.2 del Codice antidoping.
2. Il ricorso
Avverso la decisione pronunciata dalla Corte Disciplinare Internazionale della Federazione Internazionale di Motociclismo, l’atleta ricorreva dinanzi la Corte Arbitrale dello Sport, chiedendo l’annullamento della decisione o, in subordine, una riduzione della squalifica al minimo previsto nei termini di un rimprovero oppure, in via ulteriormente degradata, la condanna ma solo ad 1 anno di inidoneità.
Nel proprio ricorso, Iannone richiedeva l’applicazione del medesimo trattamento e, pertanto, dello stesso iter logico-giuridico-interpretativo già applicato nei precedenti casi che avevano interessato, rispettivamente, gli sportivi Jarrion Laswon e Dominika Jamnicky.
3. La decisione della Corte Arbitrale dello Sport
La Corte Arbitrale dello Sport con la decisione 10 novembre 2020 (testo in calce), rigettando totalmente l’appello dello sportivo, criticava fortemente la decisione assunta in primo grado e, soprattutto, l’accoglimento da parte di mere illazioni da parte dello sportivo circa l’alta probabilità – non comprovata – di contaminazione della carne servita nei locali presenti a Singapore e in Malesia.
Ad avviso della Corte, il pilota avrebbe dovuto comprovare non la probabilità ma la possibilità della tesi da questo sostenuta.
L’atleta non aveva dimostrato il preciso tipo di carne ingerita, la sua derivazione né un’effettiva problematica di contaminazione alimentare da drostanolone nell’area ove si trovava.
Dal momento che l’atleta non era stato capace di rispettare il proprio onere probatorio finalizzato alla dimostrazione del carattere non intenzionale dell’ingestione di carne contaminata, Iannone veniva condannato in peius ad un periodo di squalifica di ben 4 anni.
Ciò che sicuramente ha sollevato maggiori critiche è stata la mancanza di un percorso logico-giuridico-interpretativo coerente e soprattutto lineare rispetto alle decisioni precedentemente assunte dalla Corte.
Pur avendo affermato l’impossibilità generale in capo ad ogni atleta di dimostrare, sul piano concreto, l’elemento dell’intenzionalità, se non in casi particolari (come nel sabotaggio per mano di un collega) ed essendosi già pronunciata in passato (nei casi Lawson e Jamnicky), proprio alla luce di tale mancanza, a favore dell’atleta, nel caso di specie, lo sportivo veniva, addirittura, condannato in peius alla pena massima, quasi come se la sua condanna dovesse assumere carattere esemplare e personale, senza offrire elementi in merito ad un discostamento così tangibile, con un’eccessiva discrezionalità nell’impiego dei propri poteri decisori.
4. La difficoltà pratiche di adempiere allo standard of proof e di raggiungimento della comfortable satisfaction della Corte Arbitrale dello Sport
Da quanto sopraesposto, emerge come, in relazione ad una sostanza non specificata dal Codice antidoping ovvero, parimenti al caso di specie, al drostanolone, l’onere probatorio del carattere non intenzionale dell’ingestione sarà in capo all’atleta.
Ciò che, invero, risalta dalla lettura del lodo arbitrale è stata la decisione dei giudici di Losanna di irrogare, nel massimo previsto, la sanzione della squalifica proprio per il mancato raggiungimento della prova nonché, quindi, per il mancato raggiungimento del c.d. “standard of proof” da parte dello sportivo e della c.d. “comfortable satisfaction” della Corte Arbitrale dello Sport.
I media hanno etichettato tale decisione come eccessiva, anche alla luce di una difficoltà concreta di raggiungere un livello maggiore ad un semplice balance of probabilities ed inferiore alla prova oltre ogni ragionevole dubbio, tipico del sistema processual-penale.
Si è trattato di un caso fortemente criticato e che ha sollevato apprezzabili dubbiosità circa il carattere congruo e giusto della sanzione irrogata ma, soprattutto, in relazione all’apprezzamento del quadro probatorio da parte della Corte anche in altre precedenti vicende.
5. Il mutamento interpretativo della Corte Arbitrale dello Sport: i precedenti di Jarrion Lawson e Dominika Jamnicky
Nel proprio ricorso, Iannone richiedeva l’applicazione del medesimo trattamento e, pertanto, dello stesso iter logico-giuridico-interpretativo già applicato nei precedenti casi che avevano interessato, rispettivamente, gli sportivi Jarrion Laswon e Dominika Jamnicky.
Nella prima vicenda, lo sportivo, al pari di Iannone, si era sottoposto volontariamente al test del capello, con esito negativo e, congiuntamente alla mancanza di precedenti, ciò veniva ritenuto sufficiente dalla Corte per la pronuncia di annullamento della decisione di condanna assunta in primo grado e per la conferma della non intenzionalità dell’ingestione da parte del pilota.
Nella seconda vicenda, la Corte, affermando l’impossibilità, in certi casi, di stabilire l’origine della sostanza contaminata, dichiarava non colpevole l’atleta e, pertanto, non intenzionale l’ingestione, anche in ragione della personalità e della credibilità della sportiva.
Tracciando, così, un parallelismo con i sopracitati due precedenti, Iannone richiedeva l’applicazione del medesimo ragionamento ma il Collegio, ribadendo l’incapacità del pilota di comprovare, secondo lo standard of proof, l’origine della sostanza proibita, pronunciava un lodo di condanna in peius avverso il ricorrente.
Doping: il caso Iannone e i precedenti di Lawson e Jamnicky
Dall’analisi della vicenda Iannone, è possibile dedurre come, pur non essendo vigente la regola dello stare decisis, sussista, ad ogni modo, in capo alla Corte un preciso onere di offrire le motivazioni utili a fondamento della propria decisione, anche di rottura rispetto ad un precedente filone interpretativo ormai consolidato.
Come espresso al par. 135 del lodo, pur non essendo presente il principio del precedente vincolante connaturato all’esperienza di common law, al fine di mantenere un’uniformità nelle pronunce assunte, sarà compito del Collegio esaminare anche i lodi precedentemente emessi nell’ambito di questioni analoghe a quella in esame e, in caso di discostamento, la Corte dovrà indicare le motivazioni di tale mutamento interpretativo.
Ciò che sicuramente ha sollevato maggiori critiche è stata la mancanza di un percorso logico-giuridico-interpretativo coerente e soprattutto lineare rispetto alle decisioni precedentemente assunte dalla Corte.
Pur avendo affermato l’impossibilità generale in capo ad ogni atleta di dimostrare, sul piano concreto, l’elemento dell’intenzionalità, se non in casi particolari (come nel sabotaggio per mano di un collega) ed essendosi già pronunciata in passato (nei casi Lawson e Jamnicky), proprio alla luce di tale mancanza, a favore dell’atleta, nel caso di specie, lo sportivo veniva, addirittura, condannato in peius alla pena massima, quasi come se la sua condanna dovesse assumere carattere esemplare e personale, senza offrire elementi in merito ad un discostamento così tangibile, con un’eccessiva discrezionalità nell’impiego dei propri poteri decisori.