“Stalking”: la Corte di Cassazione è tornata a occuparsi del reato di atti persecutori
momenti transitori di attenuazione del malessere in cui la vittima ha ripristinato il rapporto o il dialogo con il proprio persecutore non escludono il reato
Con sentenza n. 34045 del 21 giugno 2021 (dep. 15 settembre 2021), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione è tornata a occuparsi del reato di atti persecutori.
Ai sensi dell’art. 612-bis c.p., salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
In relazione alla configurabilità del reato, secondo giurisprudenza consolidata, non assumono rilievo, ai fini della credibilità del testimone, momenti transitori di attenuazione del malessere in cui la vittima ha ripristinato il rapporto o il dialogo con il proprio persecutore (Cass. pen., sez. V, 16 settembre 2014, n. 5313).
L’esistenza della prova dello stato d’ansia e paura è ricavabile dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. pen., sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 50746), senza che sia necessario che la vittima li prospetti espressamente o li descriva con esattezza (Cass. pen., sez. V, 14 settembre 2017, n. 57704).
E per tali ragioni, neppure vi è necessità alcuna di disporre una perizia medica, al fine di provare lo stato d’ansia nella vittima del reato, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza (Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 18999).
Ciò perché, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – nella gran parte dei casi costituiti da una pluralità di condotte diverse, espressive di molestie o minacce – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Cass. pen., sez. V, 17 febbraio 2017, n. 18646).
Neppure possono avere importanza, nel senso di escludere lo stato d’ansia della persona offesa, i toni più o meno perentori con i quali ella ha tentato di far comprendere al suo persecutore che non vi era più spazio per la loro relazione sentimentale: i messaggi telefonici inviati con queste caratteristiche, invece, provano la volontà della vittima di interrompere i rapporti con il suo persecutore; né rilevano, come già detto, momenti transitori di riavvicinamento, peraltro inesistenti dal punto di vista sentimentale nel caso di specie, ma limitati a scambio di messaggi, per stessa ammissione dell’imputato, circa le prospettive di vita di questi.
L’articolo ti è piaciuto? Allora, condividilo sui social.
Se vuoi saperne di più sui nostri servizi, contattataci