Usi ed abusi della carcerazione preventiva
di Antonio Di Santo
La misura coercitiva della custodia cautelare in Italia
La custodia cautelare rappresenta una misura coercitiva tramite la quale l’indagato o imputato di turno viene privato della propria libertà nelle more del procedimento o del processo, fino al termine della pronuncia giudiziale e, pertanto, fino ad avvenuto riconoscimento o meno della responsabilità penale del prevenuto.
Invero, se la presunzione di innocenza, sancita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza e, da ultimo ma non meno per importanza, dalla nostra Costituzione, risulta essere un principio essenziale, dall’altro sono le stesse fonti normative sopracitate ad aver previsto situazioni di compromissione del diritto alla libertà personale, (apparentemente) da applicarsi sempre entro determinati limiti.
Nel corrente quadro normativo, le misure cautelari personali, tanto coercitive quanto interdittive, sono applicabili all’indagato o all’imputato, allorquando sussistano, ai sensi dell’art. 273, comma 1, c.p.p., gravi indizi di colpevolezza (c.d. fumus commissi delicti) a carico del presunto soggetto agente e specifiche esigenze cautelari, come precisate dall’art. 274, comma 1, c.p.p. ovvero: a) inderogabili esigenze concernenti le indagini; b) concreto e attuale pericolo di fuga e c) concreto e attuale pericolo di commissione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede.
Ciò premesso, il focus del presente contributo sarà concentrato sull’applicazione italiana della misura cautelare personale coercitiva della custodia carceraria, la quale, seppur legislativamente prevista come extrema ratio, nella prassi viene, al contrario, molto apprezzata dai nostri giudici.
Le garanzie (almeno sulla carta) a tutela dei soggetti in attesa di giudizio
Cercando di comprendere, in via preliminare, quali siano le garanzie che, almeno sulla carta, il legislatore ha voluto offrire a tutela dell’imputato o dell’indagato, bisogna far riferimento, innanzitutto, all’art. 275, comma 1, c.p.p., secondo cui il giudice per le indagini preliminari, nel disporre le misure, è tenuto a verificare la specifica idoneità di ciascuna circa la natura ed il grado delle esigenze cautelari da soddisfare. Secondo il successivo comma, ogni misura deve essere, poi, proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritenga possa essere irrogata mentre, ai sensi del terzo comma, la custodia cautelare può essere disposta solamente se le altre misure coercitive o interdittive non risultino adeguate.
In tutto ciò, la Legge n. 117/2014 ha imposto, salvo le eccezioni previste, il divieto della custodia cautelare in carcere, nel caso in cui il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.
Un’altra rilevante disposizione è da ricercare nell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p., per il quale il giudice per le indagini preliminari ha l’onere di esporre, previa autonoma valutazione, le specifiche esigenze cautelari e gli indizi che, a suo avviso, giustificano concretamente la misura prescelta, con una chiara indicazione degli elementi di fatto da cui sono stati desunti e dei motivi per i quali assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dall’avvenuta commissione del reato.
Le armi a disposizione del ristretto
In un simile panorama, una domanda che legittimamente verrebbe da porsi è la seguente: quali saranno le armi che il ristretto potrà esercitare al fine di tutelarsi da un provvedimento di custodia cautelare carceraria?
Sicuramente è da annoverare un diritto di difesa ben articolato, da esercitare, altresì, tramite indagini difensive precise e puntuali che possano ribaltare la posizione dell’indagato o dell’imputato, limitando le possibilità di un errore giudiziario da parte del giudicante.
Da ulteriore, possono esserci problematiche pregresse, insorte successivamente all’applicazione della misura cautelare in questione ovvero rese ancor più gravose dalle difficili condizioni carcerarie, di natura psico-fisica (giusto per citarne alcune, obesità, diabete, depressione e fumo), in capo all’indagato o all’imputato di turno che possono essere invocate dalla sua difesa per cercare di limitare i danni derivanti dalla stessa.
Il contentino statale dell’indennizzo deciso dal giudice
Ciò detto, nonostante, secondo il Rapporto Antigone 2023, “la percentuale delle persone in custodia cautelare continua costantemente a calare. Alla fine del 2022 era del 27,8%, alla fine del 2021 del 29,9% ma ad esempio 10 anni prima, alla fine del 2011, raggiungeva il 40,8%, ed in passato è stata ancora più alta. Fortunatamente il nostro paese è riuscito a scrollarsi di dosso questo primato in Europa che certamente non ci faceva onore”, non risulta essere un mistero come in svariate circostanze, vuoi per le pessime condizioni in cui versano le carceri italiane (sovraffollamento, in primis), vuoi per i c.d. “errori giudiziari”, il ristretto si trovi a vivere una situazione di profonda ingiustizia.
Ad ogni modo, però, in particolar modo per il secondo aspetto che maggiormente ci interessa, il nostro legislatore sembra aver pensato a tutto, avendo introdotto, nel c.p.p. del 1988, un percorso ad hoc di riparazione per ingiusta detenzione con il riconoscimento di un diritto soggettivo in capo alla persona violata, alla luce delle imposizioni di cui all’art. 5, comma 5, della C.E.D.U.
Il presupposto del diritto trova il proprio fondamento nella c.d. “ingiustizia sostanziale” della custodia cautelare subita, ex art. 314, comma 1, c.p.p., allorquando vi sia stato proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, fermo restando che, ai sensi del comma 3 della stessa disposizione, alla sentenza di assoluzione sono equiparati la sentenza di non luogo a procedere ed il provvedimento di archiviazione e nella c.d. “ingiustizia formale”, ex art. 314, comma 2, c.p.p., la quale ricorre nei casi di illegittima applicazione della custodia cautelare, al di fuori delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., a prescindere dall’avvenuta pronuncia di assoluzione o condanna.
Il duplice paradosso di tale diritto, a detrimento dello stesso diritto soggettivo che, dunque, dovrà esercitato dall’ex ristretto, già patito da una situazione altamente afflittiva sul piano economico, fisico e morale, lo si rinviene nella sua natura non già risarcitoria ma di indennizzo, con un diritto di determinazione, da parte del giudice, in via equitativa, con un preciso tetto di spesa (€ 516.456,00), con possibili ipotesi di ulteriore danno nei casi di pronunce la cui determinazione monetaria risulti ingiusta e non adeguata agli occhi dell’istante.
Conclusioni
Dalle considerazioni sopraesposte, è possibile desumere come, al pari di tanti altri aspetti, l’Italia si dimostri, ancora una volta, un passo indietro.
Bisogna, in primo luogo, ricordare come gli istituti penitenziari destinati ad accogliere quei soggetti in attesa di giudizio dovrebbero essere ben distinti da quelli che, al contrario, accolgono i condannati con sentenza ormai definitiva o, laddove non possibile, quantomeno in sezioni diverse dello stesso stabile, proprio al fine di assicurare un trattamento diverso (basti pensare che per il reo dovrebbe essere perseguita una finalità di recupero e di rieducazione).
Una soluzione, questa, che, senza essere naive, risulta alquanto improbabile, considerando anche gli alti costi che deriverebbero da un’operazione simile, improponibili per via dei continui tagli statali alla Giustizia.
Ciò che emerge dalla prassi è come, in diverse circostanze, vi sia un abuso dello strumento della carcerazione preventiva, con una motivazione inadeguata della sussistenza dei presunti presupposti per la sua applicazione da parte del giudice, non superabile in fase di riesame tantomeno in quella di appello cautelare.
Le alternative ci sono e, in questo, la tecnologia può giocare un ruolo essenziale (basti pensare all’ipotesi del controllo da remoto operato tramite l’apposizione sulla persona del prevenuto del c.d. “braccialetto elettronico”), sotto plurimi aspetti, come, a titolo meramente esemplificativo, la riduzione del sovraffollamento carcerario con un taglio netto anche dei costi derivanti dal “mantenimento” del ristretto in cella e l’abbassamento delle probabilità di richieste di indennizzo da parte di chi venga poi dichiarato non colpevole, con un percepibile miglioramento del settore della giustizia.
Da ultimo, laddove il Giudice per le indagini preliminari dovesse ritenere applicabile solo la custodia cautelare in carcere, sarà essenziale, in primo luogo e come già sopra esposto, che venga assolto l’onere della prova da parte del giudicante, con una motivazione che possa ritenersi sufficiente ad esplicare le ragioni del mancato soddisfacimento delle esigenze cautelari tramite l’applicazione di una delle misure meno afflittive, evitando l’adozione di formule stereotipate, generali ed astratte ma con un’attenta analisi di tutti gli elementi che concretamente contraddistinguono il caso in esame.
Acquisterà, infine, fondamentale rilevanza il rispetto delle tempistiche giudiziarie, con l’instaurazione di un processo in tempi ragionevoli, anche secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 3, della CEDU, in un’ottica generale di diligenza e celerità a tutela della persona del prevenuto privata della propria libertà personale ma anche a garanzia della stessa spesa pubblica con una riduzione delle probabilità di istanze di indennizzo, soprattutto nei casi succitati d’ingiustizia sostanziale e formale.