Pubblicità distorta e tutela del consumatore: i confini dell’ingannevolezza
Oggigiorno, in ogni dove, siamo circondati da messaggi pubblicitari, più o meno esplicitati, che vengono veicolati tramite spot in televisione o sui principali social network, affissioni sui cartelloni presenti per strada o, più tradizionalmente, attraverso le canoniche pubblicità sulla carta stampata.
Rappresenta, altresì, un dato inconfutabile come la pubblicità, al fine di attirare l’attenzione del consumatore “medio” e, conseguentemente, di generare fatturato in favore dell’azienda reclamizzata, debba essere d’impatto ed efficace, suscitando immediato interesse.
Tale “mission”, soprattutto nei pubblicitari più agguerriti (inclusi anche gli svariati influencer e brand ambassador che si dilettano in tale attività retribuita sui diversi social network) spinti (anche) dalle insistenze dell’azienda committente, finisce, tuttavia, per tramutarsi in un vero e proprio attacco al consumatore “medio”, colpito nella propria debolezza informativa, a suon di messaggi pubblicitari ingannevoli e distorti, finalizzati, ad ogni costo, esclusivamente alla “produzione” di vendite.
1. La definizione normativa di “pubblicità ingannevole”
La disciplina della “pubblicità ingannevole” è stata introdotta dal legislatore, al fine di tutelare, non solo la buona fede e la capacità di spesa (rectius: iniziativa economica privata ex art. 41 Cost.) del consumatore medio, ma, altresì, il libero mercato nonché la concorrenza leale tra imprese e professionisti.
Ebbene, con tale denominazione, deve intendersi “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”.
In questi termini si esprime l’art. 2, primo comma, lett. b), del D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 145, in “[a]ttuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2007.
A tale definizione, l’art. 20, quarto comma, lett. a), del D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 146, in “[a]ttuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 2002/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 2006/2004”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2007, che ha modificato gli arrt. 18-27 del D.Lgs. n. 206/05, c.d. “Codice del consumo”, ha aggiunto come sia da considerare “scorretta” una pratica commerciale “ingannevole”, specificando all’articolo successivo, come sia “considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
È interessante notare come sia considerata “ingannevole” anche qualsivoglia omissione ovvero, ai sensi dell’art. 22, primo comma, del succitato D. Lgs., è da reputarsi ingannevole “una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”, rilevando, al comma successivo come sia, altresì, da valutarsi un’omissione ingannevole “quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al comma 1, tenendo conto degli aspetti di cui al detto comma, o non indica l’intento commerciale della pratica stessa qualora questi non risultino già evidente dal contesto nonché quando, nell’uno o nell’altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
A tal proposito, si è pronunciato, qualche anno, con la sentenza n. 7123/19, il TAR Lazio affermando come un messaggio pubblicitario recante dati corretti, possa, ad ogni modo, essere captato in via distorta dai vari utenti, in caso di omissione di altre informazioni essenziali, così da rendere il messaggio non sufficientemente chiaro e completo (pensiamo, ad esempio, alla gran quantità di messaggi pubblicitari aventi ad oggetto “miracolosi” prodotti cosmetici o dietetici).
2. Gli strumenti di tutela del consumatore medio
Cosa potrà, quindi, fare l’utente-consumatore medio nel caso in cui si ritrovi ad essere vittima di un episodio di pubblicità ingannevole?
L’art. 27 del Codice del consumo individua nell’Autorità garante della concorrenza e del mercato l’Autorità competente in materia, la quale potrà intervenire d’ufficio o su istanza di qualsivoglia soggetto o organizzazione che ne abbia interesse, inibendo la prosecuzione delle pratiche commerciali scorrette ed eliminando gli effetti. La stessa Autorità può, altresì, disporre, tramite provvedimento motivato, la sospensione, in via provvisoria, delle pratiche commerciali scorrette, in caso di particolare urgenza.
Una volta pervenuta all’Autorità a mezzo r/r, P.E.C. oppure online, la segnalazione sarà attribuita per competenza alla Direzione Generale per la Tutela del Consumatore.
In caso di mancato avvio dell’istruttoria nel termine di 180 giorni dal ricevimento della segnalazione, questa deve intendersi con una archiviazione o con un non luogo a provvedere. In tale ultima ipotesi, è facoltà dell’Autorità, altresì in ragione di elementi sopravvenuti, di acquisire dopo gli atti la segnalazione per un possibile approfondimento istruttorio d’ufficio.
3. Risarcimento del danno: la competenza del giudice ordinario
Il consumatore, sentitosi leso nei propri diritti ed interessi costituzionalmente tutelati, potrà rivolgersi al giudice ordinario per promuovere una controversia, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2043 c.c., al fine di conseguire un adeguato risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, da intendere quale peggioramento del proprio stato di salute, a causa, ad esempio, dell’assunzione o apposizione di un determinato prodotto.
Come statuito dalla storica sentenza del 15/01/2009 n. 794, emessa dalla Cass., civ., SS.UU., il consumatore sarà tenuto non solo a provare il carattere ingannevole del messaggio pubblicitario “incriminato”, ma dovrà, altresì, comprovare la sussistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno e la colpa da parte di chi ha diffuso quel determinato messaggio pubblicitario, da individuare nella prevedibilità che dalla diffusione di un certo messaggio sarebbero scaturiti effetti dannosi.
4. Conclusioni
Dalle considerazioni sopra esposte, è possibile trarre le seguenti conclusioni.
L’avvento delle nuove tecnologie ha ampliato, ancor di più, il palcoscenico pubblicitario, con l’introduzione di forme più “fresche”, veloci e smart, atte a veicolare i diversi messaggi promozionali, rendendo il consumatore ancora più debole e soggetto al potere delle aziende, più forti sul piano delle risorse economiche investite in tale settore.
Se, da un lato, come abbiamo già visto, ad oggi, non mancano le autorità a cui il consumatore, sentitosi leso nel proprio interesse, potrà fare riferimento, al fine di denunciare forme di pubblicità ingannevole, dall’altro, ciò che sembra mancare è un controllo in via anticipata, che possa accertare ex ante la correttezza dei messaggi pubblicitari veicolati, evitandone, a monte, la diffusione.
Non è mistero come il profilo del consumatore “medio” si presenti come quello di un soggetto ignorante sul piano normativo e sulle tutele da attuare, modesto dal punto di vista delle risorse economiche a disposizione da impiegare per denunciare eventuali profili di ingannevolezza e richiedere un adeguato risarcimento danni, oltre che demotivato/disinteressato a far valere un proprio diritto, anche a tutela (anticipata) di altre possibili “vittime”.
I social network hanno, peraltro, velocizzato le modalità di pubblicizzazione di beni o servizi venduti dalle diverse aziende sul mercato italiano, rendendo ancora più, all’ordine del giorno, la diffusione di messaggi ingannevoli.
In questo quadro, il consumatore sembra essere lasciato ancora più solo a sé stesso, fruitore sì del diritto di denunciare eventuali scorrettezze pubblicitarie ma completamente autonomo nell’esercizio di tale diritto, spesso rinunciato per le problematiche logistico-economiche di cui sopra.
La soluzione sarebbe quella di offrire un maggior rafforzamento, sul piano civilistico, di esercizio di tale diritto e, contestualmente, in un’ottica repressiva, implementare, a livello capillare e multidisciplinare, un controllo anticipato, da parte delle specifiche autorità sopra menzionate a cui affidare un maggior ventaglio di poteri, dei diversi messaggi pubblicitari da diffondere e già diffusi sul mercato, adeguando la normativa e la giurisprudenza sussistente alle nuove caratteristiche del settore in questione.