Il decreto 231 ha segnato l’avvio di un percorso di monetizzazione, basato sui caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità, che ha riguardato anche la giustizia penale (a cura dell’avv. ANTONIO DI SANTO)
A partire dall’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano della responsabilità amministrativa (rectius: penale) degli enti collettivi di cui al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è stato avviato quel lento ma progressivo procedimento di monetizzazione, focalizzato sui caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità, che ha riguardato anche la giustizia di tipo penale.
Si potrebbe pensare ad una novità introdotta dal legislatore dal tempo ma, ad un occhio più esperto, non può sfuggire come sia un istituto ravvisabile già all’interno dell’art. 2, terzo comma, del Codice penale che prevede la conversione immediata della pena detentiva inflitta al termine del processo nella corrispondente pena pecuniaria, nell’eventualità in cui la legge posteriore abbia disposto l’irrogazione della semplice sanzione economica per il reato di cui alla pronuncia.
Se una conversione dalla pena detentiva a quella pecuniaria, per lo più al termine di una fase processuale, era già prevista nel sopracitato Codice, non deve sorprendere l’applicazione di un percorso di monetizzazione in una fase anteriore priva di una sentenza, come previsto nell’art. 17 del D.Lgs. n. 231/01.
Si è, quindi, registrata la tendenza di dare vita a forme di giustizia privatizzata e monetizzata, compromettendo, così, la funzione cognitiva del processo, a favore, invece, della creazione di nuovi modelli processuali negoziali non più fondati sull’accertamento del fatto di reato.
Con un processo penale che si interrompe ancor prima di assumere tale fase, tramite la stipula di un contratto tra le parti coinvolte (o meglio, solo tra Pubblico Ministero ed ente trasgressore con una palese esclusione della figura della vittima e potenziale parte civile), si è proclamata la caduta del garantismo ordinamentale ma, soprattutto, costituzionale.
In tale contesto, il generale criterio di garantismo che fonda l’ordinamento giuridico italiano, attraverso la necessaria osservazione di una specifica procedura finalizzata alla tutela del bene giuridico leso e protetto dallo Stato nonché di tutte le parti coinvolte di cui siano stati violati diritti ed interessi degni di protezione, risulta schiacciato da logiche utilitaristiche, poco interessate all’accertamento della verità processuale dei fatti, con un capovolgimento del tradizionale percorso procedimento e processuale, in violazione di interessi superiori costituzionalmente protetti.
Sulla scorta dei suesposti rilievi, una riflessione critica pare sorgere spontanea ovvero, fino a che punto, possa ritenersi valido ed apprezzabile un sistema che, seppur apportando ampi benefici, per lo più, di carattere economico a favore delle casse statali e di tutti quegli enti collettivi trasgressori di medie e grandi dimensioni che siano in grado di vantare un apprezzabile “potere di spesa”, abbia finito per snaturare l’intero impianto procedimentale e processuale penale, solo nell’ottica di un raggiungimento dei tanto sofferti obiettivi di efficienza, efficacia e celerità della giustizia ma solo da un mero punto di vista formale e non già sostanziale.
Ai sensi dell’istituto di cui all’art. 17 del D.Lgs. n. 231/01, è decaduto ogni tipo di interesse verso l’accertamento dei diversi aspetti del fatto di reato, dal momento che lo stesso sarà rilevante solamente nei termini in cui generi un danno; danno, la cui riparazione, diviene fondamentale per l’ente collettivo trasgressore allo scopo di sottoscrivere un accordo economico con il Pubblico Ministero e ripristinare la propria posizione goduta in antecedenza rispetto alla realizzazione del fatto di reato.