a cura dell’Avv. Antonio Di Santo
La Suprema Corte di Cassazione. sezione II penale, si è pronunciata con la sentenza 25 novembre-30 dicembre 2020, n. 37818 (testo in calce) sul celebre caso A. statuendo come il prelievo forzoso di ovociti configuri il reato di rapina.
Il caso vedeva un ginecologo accusato, in concorso con l’anestesista e la propria collaboratrice, di aver costretto, con violenza, una giovane ragazza, per procedere successivamente all’impianto di embrioni in altre pazienti, a subire il prelievo forzato dal proprio utero di sei ovociti di cui si era impossessato, congiuntamente al cellulare della ragazza, quando la medesima, a seguito dell’intervento, si trovava ancora sotto l’effetto dei sedativi, per procurarsi un ingiusto profitto, cagionandole un disturbo post-traumatico ed una sindrome depressiva atipica.
Il Giudice di prime cure condannava il ginecologo, per i reati di rapina pluriaggravata, lesione personale e falsità ideologica per la redazione del certificato di dimissioni della persona danneggiata ove attestava il consenso della stessa all’intervento di prelievo ovocitario, lesione personale quale conseguenza non voluta del delitto di rapina e tentata estorsione.
Riformando parzialmente la decisione di primo grado, la Corte di appello dichiarava il ginecologo colpevole anche della rapina del cellulare della vittima e riqualificava l’estorsione nella sua ipotesi consumata.
Il ginecologo ricorreva in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza di secondo grado deducendo, peraltro, l’erronea applicazione dell’art. 628 c.p.
Condividendo le statuizioni di merito della Corte di Appello, la Suprema Corte dichiarava configurato il delitto plurioffensivo di rapina, dal momento che il ginecologo aveva usato violenza per costringere la ragazza a subire l’intervento, rendendola incapace di agire tramite sedazione non voluta, per prelevare i suoi ovociti, poi fecondati, con un successivo impianto degli embrioni in altre pazienti e conseguire un ingiusto profitto, escludendo la riconducibilità della condotta all’art. 610 c.p. per la mancata punibilità dell’impossessamento degli ovociti prelevati contro la volontà della giovane.
1. I fatti
Con sentenza pronunciata il 25 novembre 2020, gli Ermellini – Cass., Sez. II, sent. 25 novembre 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37818, Pres. Imperiali, est. Messini D’Agostini, ric. A. e Carabetta – sono stati chiamati a pronunciarsi su una delicata questione interpretativa circa l’inquadramento penalistico del prelievo forzoso di ovociti.
Il caso vedeva S. A., ginecologo e direttore sanitario della clinica M. accusato, in concorso con l’anestesista A. M. e con la propria collaboratrice B. B., di aver costretto, con violenza, la giovane H. M., cagionandole ecchimosi varie, per procedere successivamente all’impianto di embrioni in altre pazienti della propria clinica, a subire il prelievo forzato dal proprio utero di sei ovociti di cui si era impossessato, congiuntamente al cellulare della ragazza, quando la medesima, a seguito dell’intervento, si trovava ancora sotto l’effetto dei sedativi, per procurarsi un ingiusto profitto, cagionandole un disturbo post-traumatico ed una sindrome depressiva atipica.
2. Il giudizio di primo e secondo grado
Con decisione assunta il 15 febbraio 2018, il Tribunale di Milano condannava S. A., per i reati di rapina pluriaggravata, lesione personale e falsità ideologica per la redazione del certificato di dimissioni della persona danneggiata ove attestava il consenso della stessa all’intervento di prelievo ovocitario, lesione personale quale conseguenza non voluta del delitto di rapina e tentata estorsione nei confronti di L. C. e D. M. per la corresponsione di ingenti somme di denaro a fronte delle pratiche di fecondazione assistita.
A seguito di appello, riformando parzialmente la decisione assunta dal Giudice di prime cure, con sentenza emessa il 13 maggio 2019 la Corte di appello di Milano dichiarava A. colpevole, altresì, della rapina del cellulare della vittima e riqualificava l’estorsione nella sua ipotesi consumata.
3. Il ricorso per Cassazione
A. ricorreva in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza di secondo grado deducendo, peraltro, la violazione della legge penale per erronea applicazione dell’art. 628 c.p.
Richiamando la sentenza del 17/08/2016 assunta dalla Suprema Corte nella fase cautelare (Cass. Pen., Sez. F., n. 39541 del 17/08/2016, Rv. 267990) ove era stata contestata solo l’azione di separazione degli ovociti dal corpo della donna e non già quella successiva di impossessamento con sola integrazione del reato di violenza privata, il ricorrente affermava come non fosse configurabile il reato di rapina in quanto gli ovociti avrebbero acquistato lo status di cosa mobile solo al termine del processo di asportazione dal corpo umano.
Secondo il già menzionato, la condotta presuntivamente realizzata dallo stesso avrebbe potuto essere inquadrata nell’ambito del reato di violenza privata e di lesione personale ovvero di furto ma non già di rapina.
La Suprema Corte, dichiarando infondato il motivo proposto da A. circa la presunta erronea qualificazione giuridica dell’impossessamento degli ovociti nei termini del reato di rapina, affermava come gli ovociti fossero parti del corpo suscettibili di valutazione patrimoniale e, pertanto, rientranti nell’ambito della teoria della mobilizzazione secondo cui le cose possono essere mobilizzate tramite la loro avulsione, enucleazione o simile attività.
In tal senso, la nozione penalistica di cosa mobile non coincide con quella civilistica, rivelandosi, ai fini che ci occorre, più ampia ricomprendendo beni che possano essere mobilizzati, divenendo, quindi, asportabili, sottraibili ed oggetto di appropriazione (Cass. Pen., Sez. 1, n. 8514 del 12/02/1974, Rossi, Rv. 128491; Cass. Pen., Sez. 2, n. 9802 del 07/06/1984, Dagrada, Rv. 166566; Cass. Pen., Sez. 4, n. 11008 del 13/10/1995, Rizzo, Rv. 202971; Cass. Pen., Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Corniani, Rv. 247271; Cass. Pen., Sez. 4, n. 6617 del 24/11/2016, dep. 2017, Frontino, Rv. 269225).
Aderendo al succitato e costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, la Corte di Cassazione statuiva come fosse possibile parlare di “reificazione” (ovvero dell’acquisto dello status di cosa mobile da parte degli ovociti solo al termine del processo di asportazione dal corpo umano) anche in relazione degli ovociti “che fanno parte del circuito biologico della donna fino a quando sono parte del suo corpo, ma divengono “cosa” nel momento in cui vengono distaccati” (pag. 24).
Gli Ermellini, condividendo le statuizioni di merito della Corte di Appello (pag. 120), dichiaravano configurato il delitto di rapina – avente natura plurioffensiva in quanto lesivo del patrimonio nonché della libertà e dell’integrità psico-fisica della vittima per la realizzazione del profitto – dal momento che A. aveva usato violenza per costringere la ragazza a subire l’intervento, rendendola incapace di agire tramite involontaria sedazione, al fine di prelevare i suoi ovociti, poi fecondati, con un successivo impianto degli embrioni in altre pazienti e conseguire un ingiusto profitto, escludendo la riconducibilità della condotta al reato di cui all’art. 610 c.p. per la mancata punibilità dell’impossessamento degli ovociti prelevati contro la volontà della vittima.
Per la Corte, tra la condotta violenta, realizzata quando ancora non sussisteva l’oggetto materiale del reato di rapina ed il conseguente impossessamento degli ovociti della vittima, vi era, quindi, un nesso di immediatezza e strumentalità, giacché la prima condotta si traduceva nella violenza esercitata sulla danneggiata, indispensabile per l’integrazione del delitto di rapina.
4. Conclusioni
La portata interpretativa di tale pronuncia può definirsi, oltremodo, eccezionale.
La Suprema Corte ha fortemente esteso il concetto di detenzione ma anche quelli di sottrazione ed impossessamento di cui all’art. 628 c.p. per farvi ricomprendere anche quelle ipotesi che abbiano ad oggetto non già la res in sé bensì una parte del corpo separata dal resto e “trasformata” in una cosa mobile.
Ciò che emerge è stata la necessità e la difficoltà di adattare una risalente formulazione normativa alle innovazioni tecnologiche dei tempi moderni, ricorrendo ad un’interpretazione (forse eccessivamente) estensiva dei requisiti di cui all’art. 628 c.p. con un conseguente indebolimento dei principi fondamentali di tassatività, determinatezza e certezza del diritto.
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