Lo scarso utilizzo dell’istituto dell’azione di classe nel nostro paese: quanto ancora abbiamo da imparare dagli Stati Uniti
Le origini storiche dell’istituto della class action statunitense sono molto risalenti. Il padre della giustizia americana, Joseph Story, dichiarò ammissibile l’istituto, a titolo di eccezione alla Necessary Parties Rule, con la formulazione di una disciplina già nel lontano 1842; disciplina che venne, poi, modificata dalla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedures del 1938.
Di contro, in Italia, l’introduzione dell’istituto è recente, a seguito dell’inserimento, solamente nel 2007, dell’art. 140 bis nel D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. “Codice del Consumo”), con, a distanza di ben dodici anni, di un apprezzabile evoluzione della normativa in materia, tramite la novella operata dalla Legge 12 aprile 2019, n. 31, entrata in vigore, a causa dell’emergenza sanitaria per via Covid-19, lo scorso 19 maggio, con un ritardo di 13 mesi rispetto a quanto originariamente prospettato.
Ad ogni modo, le maggiori critiche che sono state rivolte, solo sulla carta, sono da rinvenire nel fatto che la nuova disciplina, pur avendo ampliato il regime dell’ambito oggettivo e soggettivo dell’azione, delle prove e degli incentivi per gli avvocati, non abbia, nel complesso, introdotto delle radicali novità che potessero far auspicare, parimenti al modello statunitense (di recente, può essere menzionato il caso di successo, Bloom et al. v. ACT, Inc.) ad una massiccia diffusione operativa dell’istituto.
Se, sul territorio americano, non mancano gli esempi di class action, in Italia scarseggiano, visto l’insuccesso di tali cause per via del complesso procedimento e dei numerosi vizi procedimentali, degli alti costi che la parte attrice si trova a dover anticipare e della mancanza di risorse (logistiche ed economiche) degli studi legali italiani rispetto a quelli statunitensi nonché dall’assenza di incentivi per i primi.
Si potrà solo sperare in un cambio di rotta, tra qualche anno, con l’effettiva percezione del potenziale insito nella nuova disciplina normativa.
1. Le origini storiche dell’istituto della class action statunitense ed italiana
Nel XIX secolo, può essere rintracciata l’origine della class action statunitense. Il giudice federale nonché padre della giustizia americana, Joseph Story dichiarò, invero, ammissibile l’istituto, a titolo di eccezione alla Necessary Parties Rule, con la formulazione di una vera e propria disciplina già nel lontano 1842; disciplina, questa, che venne, poi, modificata dalla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedures del 1938.
Di contro, invece, in Italia, l’introduzione dell’istituto è alquanto recente, a seguito dell’inserimento, solamente nel 2007, dell’art. 140 bis nel D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. “Codice del Consumo”), con, a distanza di ben dodici anni, di un apprezzabile evoluzione della normativa in materia, tramite la novella operata dalla Legge 12 aprile 2019, n. 31, la quale, seppur fonte di aspre critiche per i suoi molteplici risvolti processuali, ha ampliato la platea dei soggetti danneggiati ma, soprattutto, dei danni tutelabili. In tal maniera, lo strumento della class action, da semplice istituto incluso in un Decreto Legislativo, ad oggi risulta racchiuso in una Legge e, nello specifico, concretizzatosi nella formulazione dell’art. 840 ter c.p.c.
2. L’impatto del Covid-19 sulla Legge n. 31/2019
Se la class action si è manifestata, come si avrà modo di approfondire in seguito, quale uno strumento di successo negli Stati Uniti, in Italia, invece, la normativa prevista dal Codice del Consumo non ha avuto molto successo, con un impatto pratico, definibile, fallimentare.
Allo stato attuale, non è, tantomeno, possibile compiere un bilancio sulle novità introdotte dalla Legge n. 31/2019, dal momento che la nuova disciplina delle azioni di classe risarcitoria e inibitoria collettiva, introdotte dagli artt. 840-bis e ss. c.p.c., è entrata in vigore solamente lo scorso 19 maggio, avendo subito un rinvio di ben 13 mesi, dovuto alla proclamazione dell’emergenza sanitaria portata dalla diffusione del virus Covid-19.
3. Il fallimento della class action italiana: le criticità mosse alla Legge n. 31/2019, in comparazione con il sistema statunitense
Le maggiori critiche che sono state rivolte, in chiave di previsione sul successo del procedimento di cui sopra, sono da rinvenire nel fatto che la nuova disciplina, pur avendo ampliato il regime dell’ambito oggettivo e soggettivo dell’azione, delle prove e degli incentivi per gli avvocati, non abbia, nel complesso, introdotto delle radicali novità che potessero far auspicare, parimenti al modello statunitense, ad una massiccia diffusione operativa dell’istituto.
Si intende far riferimento, a titolo esemplificativo, al meccanismo di efficacia per la class action. Esclusivamente il meccanismo dell’opt-out renderebbe efficace il procedimento, consentendo la realizzazione delle finalità connesse alle azioni collettive; meccanismo che, tuttavia, non è stato introdotto dalla succitata Legge n. 31/2019 nell’ordinamento giuridico italiano.
In via aggiuntiva, il procedimento si presenta inutilmente complesso, con una farraginosità aggravata dalla c.d. “doppia finestra” per le adesioni dei membri della class action e la divisione del giudizio di merito in due fasi ovvero il primo finalizzato all’accertamento della condotta plurioffensiva ed il secondo volto alla verifica dei diritti individuali omogenei degli aderenti.
Risulta, inoltre, assente una disciplina in tema di danni punitivi, essenziale per la realizzazione della funzione di deterrenza rispetto a condotte dannose.
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è da rinvenire nell’incidenza dell’ambiente giuridico che, seppur implicitamente, si riflette sull’esercizio dei poteri giudiziali, sul lavoro degli avvocati e, più in generale, sulla dinamica delle azioni collettive.
Negli USA, invece, il giudice è un soggetto fortemente influenzato politicamente (anche per via del sistema di nomina di tale figura) ed i giudici, tendendo a tutelare le richieste delle parti più deboli al fine di accrescere il proprio consenso elettorale, si pronunciano, nella maggior parte dei casi, a loro favore, facendo sì che le azioni di classe possano avere successo e diffusione.
Ciò si riflette anche sulla figura dell’avvocato che, negli Stati Uniti d’America, si presenta in una versione maggiormente dinamica, in grado di autofinanziarsi ed operante in strutture di studi legali di notevoli dimensioni e risorse (umane ed economiche).
Difficilmente, sotto entrambi i succitati profili, si potrebbe fare qualcosa in Italia per modificare tale aspetto, proprio in virtù della nostra Carta costituzionale che, alla luce del principio di separazione dei poteri, ha reso i giudici indipendenti, imparziali e neutri rispetto al potere politico.
Rispetto, invece, all’aspetto delle spese, di cui all’art. 840 novies c.p.c., ciò potrebbe portare alla nascita di una nuova figura di avvocato, più dinamica, senza alcuna pretesa di equiparazione ma, quantomeno, di tentativo di replica, del modello americano.
4. Bloom et al. v. ACT, Inc.: la conferma del successo dell’action class statunitense
A conferma del successo dell’istituto della class action statunitense, può essere menzionato un interessato caso conclusosi sul finire dello scorso anno.
Nello specifico, il 22 ottobre 2020, lo Studio Panish Shea & Boyle, congiuntamente al Miller Advocacy Group, gruppo per la tutela dei diritti delle minoranze, a seguito della class action nazionale intentata, due anni prima, contro l’ACT, principale azienda che si occupava di test d’ammissione universitari standardizzati negli Stati Uniti, per aver violato i diritti civili degli studenti con disabilità, ai sensi di quanto previsto dalla legge federale e della California, ovvero per aver divulgato le loro informazioni riservate sulla disabilità nei rapporti sui punteggi alle università e ad altri programmi d’istruzione nonché di vendere le loro informazioni per l’ammissione e finalità di registrazione, siglava un accordo transattivo con l’ACT che, pur non ammettendo la propria colpevolezza ma solo per evitare maggiori costi giudiziali e le incertezze di vittoria in caso di un prolungato giudizio, ha riconosciuto agli attori della class action un risarcimento pari a 16 milioni di dollari rappresentando, ad oggi, l’importo risarcitorio più alto riconosciuto da un’azienda di test d’ammissione universitari.
I fatti hanno trovato origine nella denuncia sporta, nell’agosto 2018 da alcune famiglie californiane e dalla principale parte attrice, una ragazza affetta dal disturbo del deficit dell’attenzione, iperattività ed una disabilità di lettura simile alla dislessia.
La ragazza, dopo aver frequentato il liceo e godendo di un programma educativo personalizzato, aveva deciso di sostenere il test per l’ammissione universitaria tramite l’azienda ACT; azienda che aveva acquisito, tramite la registrazione della futura studentessa, il dato relativo alla sua disabilità (senza, tuttavia, aver ricevuto un suo espresso consenso) ed aveva condiviso tale informazione nei rapporti sui punteggi inviati ai college, università ed organizzazioni di borse di studio, quale elemento per poterla selezionare od escludere.
Da qui, la class action, che si era formata poco dopo, aveva dato vita a due gruppi di querelanti: quelli la cui disabilità era stata rivelata nei rapporti sui punteggi e quelli che erano stati esclusi dal Servizio di opportunità educative a causa della loro disabilità, per un totale di 65,728 richieste di risarcimento solo in California.
Ebbene, il 22 ottobre 2020, i legali dello Studio Panish Shea & Boyle e del Miller Advocacy Group raggiungevano un accordo transattivo con l’amministratore dell’ACT, con un’approvazione definitiva, da parte della Corte, già oggetto di approvazione preliminare, in data 1° aprile 2021, dell’accordo transattivo pari a 16 milioni di dollari.
5. Conclusioni
In conclusione, se, sul territorio americano, non mancano gli esempi di class action, in Italia difficilmente riescono a trovarsi, visto l’insuccesso di tali cause per via del complesso procedimento e dei numerosi vizi procedimentali, degli alti costi che la parte attrice si trova a dover anticipare e della mancanza di risorse (logistiche ed economiche) degli studi legali italiani (formati da una manciata di avvocati) rispetto a quelli statunitensi (composti anche da centinaia di patrocinatori) nonché dall’assenza di incentivi per gli avvocati italiani.
Oltre a ciò, diverge molto anche il ruolo del giudice che, se negli Stati Uniti d’America risulta godere di ampi poteri discrezionali, in Italia risulta essere “affetto” da una forte neutralità.
Si potrà, pertanto, solo sperare in un cambio di rotta, tra qualche anno, con l’effettiva percezione del potenziale insito nella nuova disciplina normativa di cui, tuttavia, si potrà auspicare una sua possibile novella, rispetto agli aspetti più problematici sopra evidenziati, al fine di renderla maggiormente omogenea rispetto al collega statunitense da cui si può solo trarre ispirazione.